20.10.14

Quando mi lasci ti cancello

Ci avete fatto caso? Quando due persone si lasciano le foto sul profilo Facebook che li ritraevano insieme, come per magia, spariscono.
Interi album di viaggi e vacanze vengono cestinati senza pietà. 
Foto di pranzi, cene, aperitivi, abbracci, baci, coppie di piedi, dita che si intrecciano svaniscono nel nulla.
Addirittura alcune immagini vengono ingrandite, tagliate e modificate fino a rimuovere quelli che fino a poco tempo prima ne erano sorridenti protagonisti. E di cui, quando l'operazione di ritocco delle foto non è proprio perfetta, se tutto va bene, rimane solo qualche pezzo di arto a ricordarne l'esistenza. 
Come i fratelli di Marty McFly, che scompaiono un pezzo dopo l'altro dalla foto che ha in tasca mentre suona Johnny B Goode alla festa in cui i suoi futuri genitori si baciano per la prima volta.  
In realtà, non è che si tratti di un fenomeno poi così nuovo: in fondo, la prima (o al massimo seconda o terza) cosa che uno fa dopo essersi lasciato è proprio cercare di eliminare tutto quello che in qualche modo ci ricorda la persona con cui stavamo, in primis le foto.
Solo che con i social network di mezzo le cose si sono complicate un po'. 
Perché possiamo illuderci di cancellare fotogrammi passati divenuti all'improvviso così ingombranti ed indesiderati, stando ben attenti a rimuoverli dal nostro profilo in maniera chirurgica, come in quel gioco di tanti anni fa quando dovevamo estrarre organi da un malcapitato paziente di plastica senza far scattare l'allarme. 
Ma non possiamo andare in giro a ripulire anche le foto disseminate sui profili altrui. 
Quelle scattate dai parenti, dagli amici, dagli amici degli amici, in occasioni speciali, o semplicemente durante un giorno qualunque.
Ed ecco, quindi, che, quando meno te lo aspetti, riaffiorano le immagini. 
E con esse i ricordi.
Si insinuano, come uno di quei bug fastidiosi capaci di bloccare una partita all'Amiga 500 e di farci imprecare davanti ad uno schermo. 
Sembra quasi che siano lì a provocarci.
E a ricordarci che, per quanti sforzi facciamo, che lo vogliamo oppure no, di quello che è stato, da qualche parte, fuori e dentro di noi, rimarrà sempre una traccia.

14.10.14

Dangerous di David Guetta o Della canzone pop perfetta


Come si scrive la canzone pop perfetta oggi, nell'ottobre 2014?
Così:

Regola n. 1: la canzone pop perfetta è quella che riesce ad essere al passo coi tempi.
Regola n. 2: la canzone pop perfetta è quella che riesce ad essere al passo coi tempi senza dimenticare quello che è c’è stato fino all’altro ieri e lasciando intravedere quello che verrà.
In questo senso il pezzo del famoso dj francese è perfetto: la base, suonata inizialmente da un pianoforte che presto lascia il passo a sintetizzatori e chitarre distorte, ha un ritmo sincopato, perfetto per descrivere la frenesia di un’epoca che ha fatto della velocità il suo totem indiscusso.
Ma questo solo se ci si ferma ad un primo ascolto superficiale e, per l'appunto, veloce.
Perché la linea melodica di fondo fatta di sintetizzatori evoca reminiscenze passate: i mai sufficientemente rimpianti anni '80.
Ed innesca un cortocircuito con l'immaginario cinematografico degli ultimi anni, dove sempre più spesso sono questo tipo di suoni a farla da padroni.
Pensate alla canzone sui titoli di testa di Drive, subito dopo la rapina iniziale tutta ripresa in soggettiva nella prospettiva del guidatore, con la macchina da presta che stringe sulle mani di Ryan Gosling salde al volante.

E non solo: c'è, nella linea di chitarra che sostiene l'intera canzone del dj mangiarane, che si ripete come in un loop infinito, anche un richiamo al suono di altri dj che hanno, con la loro musica, rotto ogni barriera tra musica dance e pop, come i Daft Punk.
E poi, beh poi, c'è tutta la contemporaneità che una canzone pop degna di questo nome deve avere: il ritornello fatto di poche parole efficaci ripetute in maniera quasi ossessiva ("I don't know where the lights are taking us/But something in the night is dangerous/And nothing's holding back the two of us/Baby this is getting serious/Oh oh oh/Dangerous/Oh oh oh").
Il cantato al confine col rappato.
La voce di Sam Martin, facilmente riconoscibile, eppure non catalogabile in maniera netta né nella musica pop, né in quella dance.
Probabilmente perché riconducibile ad un altro tormentone degli ultimi mesi perfetto ibrido dei due generi.

Ammesso che abbia ancora un senso parlare di pop e dance come di due generi diversi.
Perché, se c'è una cosa che Dangerous dimostra, o meglio conferma, è che se vogliamo ascoltare della buona musica pop, o meglio, della grande musica pop, non dobbiamo più guardare alle popstar e alle rockstar tradizionalmente intese.
Ma ai deejay.
Specie da quando il brit-rock è sparito, definitivamente affossato dalle risse tra i fratello Gallagher e dalle evoluzioni (?) dei Radiohead e del Damon Albarn solista.
Specie da quando chi provava a fare del buon pop con un minimo di personalità (i primi Maroon 5 su tutti) ha scelto di abbandonare la strada intrapresa per consacrarsi a vocoder e sintetizzatori (non a caso due marchi di fabbrica della musica dance degli ultimi quindici-vent'anni).
E allora non è un caso Chris Martin, uno che ha perso la moglie ma non la capacità di scrivere canzoni pop, per arrivare in cima alle classifiche con il cupo e malinconico Ghost Stories si sia rivolto ad Avicii per portare a casa il più classico degli specchietti perle allodole.
E che gli U2, pur essendosi intrufolati negli IPhone di mezzo mondo come un Trojan qualsiasi, non riescano a sfondare davvero pagando l'assenza di un tormentone in grado di trascinare il loro ultimo cd.

Forse proprio perché, persi nel loro pellegrinaggio dai produttori più in voga del momento (Ryan Tedder e Paul Epworth), si sono dimenticati di bussare alla porta di un deejay.

28.7.14

La Triste Parabola di Robin Thicke

Questa è una storia triste e disperata. Senza lieto fine, né redenzione. 
Questa è la storia di un uomo che ha toccato il cielo con un dito e, senza neanche avere il tempo di accorgersene, si è ritrovato in un mare di merda.
Come accade quasi sempre in questi casi, c'è di mezzo una donna.
Questa è la storia della Triste Parabola di Robin Thicke.
Ma procediamo con ordine.

- Il video di Burred Lines: tre simpatici cialtroni se la ridono circondati da donnine poco vestite. -

Ve lo ricordate? 
Un anno fa con questo tormentone ha contribuito ad aumentare il già elevato tasso di stupidità dell'umanità costringendoci a ballare come idioti con le braccia alzate mentre tutti insieme simulavamo una risata che sembrava la brutta copia di quella di Eddie Murphy doppiato dal mai troppo rimpianto Tonino Accolla.
E così, grazie anche a quel video cialtrone, oltre che allo zampino del solito Pharrell, il buon Robin Thicke si è ritrovato di colpo ricco e famoso. 
Le conseguenze di tutto ciò erano prevedibili: preso dall'euforia, il buon Robin ha iniziato ad infilare il suo microfono dappertutto a duettare con qualunque essere di sesso femminile. Arrivando addirittura a sdoganare quello che fino a poco tempo prima era solo un tipico gesto da uomo ubriaco ed "ingrifeto come un canguro eschimese" in discoteca e trasformandolo in una moda diffusa, il twerking.

- Che bel vestito che hai, Robin! -
Tutto normale, direte voi. 
Certamente. Solo che alla moglie questa storia non è andata giù. 


- Ciao, sono Paula Patton, la (ex) moglie di Robin Thicke -

E così ha fatto quello che ogni donna avrebbe fatto al suo posto: ha chiuso un occhio.
Ha chiuso l'altro.
E, poi, gli ha dato un calcio in culo.

E a quel punto? Cosa ha fatto il buon Robin? C'ha messo una pietra sopra? Ha utilizzato la famigerata tecnica del chiodo schiaccia chiodo?
No, il pover uomo si è procurato l'ultima edizione di"Come non si riconquista una donna", ed ha seguito alla lettera le indicazioni contenute a pagina 275, sotto la lettera S di SBAGLIOPIUGRANDE.
Ha tentato di riconquistarla.
Ma non dedicandole, che so, una poesia o due righe su Facebook, inondandola di migliaia di telefonate ed sms tipo stalker, oppure scrivendole una lettera strappalacrime.
No, le ha dedicato un intero album a partire dal titolo.

- Sguardo basso e testa china, ora sì che riconquisto lei e le charts. -

Risultato? 


- La stampa si accanisce ma lui ostenta sicurezza. -

Il più grosso flop discografico degli ultimi anni.
Roba che al confronto, Zucchero Filato Nero, il cd solista di Mauro Repetto, è stato un successo.

Ma almeno la moglie l'ha riconquistata? - Vi starete domandando.
Macché, pare che non gli abbia neanche fatto una telefonata per dirgli che aveva comprato una copia del cd per usarlo come limetta per le unghie.
Insomma, una gran brutta storia.

Comunque sappi, caro Robin, che la tua fine miserabile non è stata inutile.
Perché la tua triste parabola serve a ricordarci una di quelle tre o quattro GRANDI VERITÀ sulle quali è fondata l'esistenza: quando una donna ti molla, è finita. Poche storie. Puoi solo rimboccarti le maniche e voltare pagina (o almeno provarci). 
Perché tutto quello che proverai a fare per riconquistarla sarà solo una dimostrazione pratica, anche piuttosto patetica a dire il vero, di come sia difficile rimediare ai propri errori e, soprattutto, di come sia impossibile far tornare tutto come prima.

Si, ma in tutto questo, il povero Robin Thicke che farà adesso?
Beh, speriamo che capisca che non è il caso di continuare su questo strada se non vuole ambire al titolo zimbello della galassia. 
Che intraprenda nuove strade e, magari, torni a fare un po' il matto come tanti anni fa, come nel video di quel pezzo geniale in cui, sulle note di un campionamento della la Quinta Sinfonia di Beethoven, se ne andava in giro per le strade di New York vestito come me quando scendo la sera a gettare l'immondizia.

- Verso l'infinito e oltre! -
Non voltarti indietro e vai, Robin!
Vai.
Ché qui, tra una risata e l'altra, facciamo tutti il tifo per te.
Perché, in fondo, non c'è storia più avvincente di quella di un uomo che, dopo aver toccato il fondo (e magari dopo aver anche scavato un bel po' come hai fatto tu), riesce a rialzarsi in piedi.

Bonus track: Robin Thicke quando si faceva chiamare semplicemente Thicke e cantava canzoni decenti.


21.7.14

Tu chiamali, se vuoi, autoscatti



Io non lo so quand’è successo, di preciso.
So solo che, ad un certo punto, da qualche parte, abbiamo cominciato a fare tutto da soli.
Abbiamo iniziato a pensare di non avere più bisogno l’uno dell’altro.
Senza saperlo, probabilmente senza neanche rendercene conto, abbiamo iniziato a scrivere la parola fine
Perché abbiamo perso di vista il quadro generale, il “noi” è diventato sempre più piccolo, ristretto, fino a ridursi ad un misero “io”.
Certo, le scuse sono tante: i ritmi frenetici imposti dalla vita, i problemi quotidiani che non mollano mai la presa, il rifiuto, a volte inconsapevole, della semplicità.
Ma sono scuse, per l'appunto.
La verità è che siamo diventati talmente individualisti da illuderci di poter fare tutto – o quasi tutto - da soli.
Al punto da arrivare a smettere di chiedere aiuto anche per i gesti più semplici, elementari, come farci scattare una foto.
Prima li chiamavamo autoscatti. Adesso li chiamiamo “selfie”. 
Come accade sempre più spesso noi, che abbiamo i migliori sarti al mondo, usiamo una stoffa inglese per vestire un gesto banale.
Come accade sempre più spesso utilizziamo un termine inglese perché fa figo, ci fa sentire giovani e forti.
Come accade sempre più spesso utilizziamo un termine inglese perché, quando qualcuno ce ne chiede il significato, possiamo dare la nostra, di traduzione.
- Gep, tu che sei un uomo di mondo, ma ch' so' 'sti selfi?
- Niente Peppi', sono banalissimi autoscatti. Solo che mentre te li fai devi fare pure una faccia di cazzo.
Ma le cose non stanno proprio così.
Perché dietro quel gesto semplice, apparentemente spensierato, sicuramente narcisistico, si nasconde una convinzione malsana che, giorno dopo giorno, autoscatto dopo autoscatto, ci sta prendendo tutti. 
Ci sta fregando tutti.
Quella di poter fare tutto da soli.
Di non dover chiedere più aiuto. A nessuno e per niente.
E così, tutti presi dai nostri autoscatti, intenti a fissare con espressione ebete i display dei nostri cellulari, ci siamo ritrovati sull’orlo del baratro.
Forse perché eravamo troppo presi a pensare alle smorfie da fare.
E così, tutti presi dai nostri autoscatti, intenti a fissare con espressione ebete i display dei nostri cellulari, ci siamo ritrovati sull’orlo del baratro. Ma sempre sorridenti.
Forse perché non c’era nessuno, dall’altro lato, a tenere la macchina fotografica e a dirci di stare attenti, di non indietreggiare, che ci saremmo fatti male.
O, se c’era, non ci siamo fermati a sentirlo. Ché, tanto, c’è pure un tasto, sul display, lo sfiori e puoi anche guardarti, mentre sei alle prese col tuo selfie del giorno.
E così, tutti presi dai nostri autoscatti, intenti a fissare con espressione ebete i display dei nostri cellulari, ci siamo ritrovati sull’orlo del baratro. 
Felici e sorridenti.
Perché non abbiamo più bisogno di chiedere una mano, noi. 
Per niente. E a nessuno.
Neanche per farci scattare una foto.
Neanche adesso, che abbiamo un display sfavillante di colori davanti a noi e il buio più nero alle nostre spalle.
Anzi, a pensarci bene, non dobbiamo nemmeno chiamare qualcuno per farci dare una spinta.
Siamo benissimo in grado di farlo da soli.

P.S. È di pochi giorni fa la notizia che una ragazza è morta dopo essere caduta mentre si stava facendo un selfie. Il nucleo centrale di questo pezzo è stato scritto a fine marzo. È proprio vero che a volte la realtà riesce ad essere peggiore della fantasia. 

14.7.14

Chris Martin, il fantasma della moglie e le tette di Rihanna

Chris Martin è depresso.
Non ci credete? 
Provate ad ascoltare una a caso delle nove tracce che compongono l'ultimo cd dei Coldplay (ok, A Sky Full Of Stars non fa testo. O forse sì. In fondo, i momenti di euforia sguaiata sono tipici dei depressi).
Dicevo, è depresso perché si sta separando dalla moglie (Gwineth Paltrow), ma, a quanto pare, non riesce a separarsi dal suo fantasma, tanto da intitolare il nuovo disco della band di cui è leader "Ghost Stories". 
Depresso, al punto tale da andarsene in giro vestito come Lino Banfi in Grandi Magazzini.

Chris Martin

Lino Banfi in Grandi Magazzini

E non ci vuole un genio per comprendere che i fantasmi di cui parlano (quasi) tutti i testi (tristissimi) dell'album sono in gran parte i ricordi lasciati dall'abbandono della persona amata.
Ma, siccome Chris è depresso, ma è anche ricco sfondato, quando sta male lui non chiama, come tutti noi, la mamma, o, chessó, Mariuccia, la nostra amica del cuore.

             Mariuccia in una delle sue foto migliori

No, lui è un depresso figo che vive tra Los Angeles e Londra e di mestiere fa la rockstar e quindi, quando sta male, per consolarsi, chiama Rihanna.

Rihanna

- Pronto Ri', ciao sono Chris
- Ah, ciao Chris!
- Sai, Ri'... Sono un po giù per via del fatto che... mi sono lasciato con Gwineth, e... pensavo che... sai... magari... io e te...
- Chris, vuoi scopare?

Ecco. Più o meno le cose sono andate così. 


Ma la verità è che Chris Martin, anche se tra un pianto e l'altro si schiaccia Rihanna, è depresso ed ha ragione ad esserlo.
Perché, quando perdi la persona che ami, quello che ti aspetta dopo, almeno per un bel po'  di tempo, è solo sofferenza, sia pure in diverse gradazioni, sia pure intervallata da fugaci momenti di benessere.
E insomma, la triste storia del giovane Chris serve a ricordarci, se ce ne fosse ancora bisogno, che i soldi, la fama e il successo non contano poi granché di fronte alle COSEIMPORTANTIDELLAVITA, dinanzi alle quali siamo tutti uguali, come ci ricordava il grande Totò nella Livella.
Ché quando arriva la botta, arriva per tutti, che tu ti chiami Chris Martin o Enzo Rossi.
E non c'è Rihanna che possa consolarti.

Forse...


Bonus Track: prove generali di flirt tra i due sul set della canzone più criticata della storia dei Coldplay



Bonus Track 2: la canzone più bella e sottovalutata di Rihanna


26.10.11

Elogio di un giudice civile scritto da un giudice civile.


Allora, mi vedi?
No, non sono quello con la toga, in piedi, che arringa, nella speranza di riuscire, almeno per una volta, a mettere dentro qualcuno che non sia un extracomunitario, o l’ultimissima ruota del carro della vendita al dettaglio di stupefacenti.
E nemmeno uno di quei tre che gli sta seduto di fronte, ad ascoltarlo sonnecchiante.
No, non mi trovi nelle aule grandi, quelle col gabbiotto e la scritta in bella mostra “La legge è uguale per tutti”.
Di solito la mia aula di udienza è nella parte più squallida del tribunale, talvolta relegata in una struttura a parte, quasi a voler rimarcare, in maniera plastica, la distanza che c’è tra la giustizia civile e quella penale. O meglio, tra la giustizia civile e la Giustizia. Punto.
Molte volte la mia aula di udienza assomiglia al box 4x4 in cui è costretto a lavorare l’impiegato di un call-center, altre volte all’ufficio ampio e confortevole di un dirigente aziendale, altre volte ancora, come nel mio caso, ha l’aspetto retrò di un salotto in stile anni ’70.
Che importanza ha? - Mi dirai,
Nessuna. - Rispondo io.
Perché che tu faccia udienza ai piani alti di un palazzo di acciaio e vetro, o tra le quattro mura di un condominio sei e resti un giudice di guerra.
Sì, perché il giudice civile è un giudice di guerra. Nel senso letterale del termine.
Cosa fa, in fondo, se non intervenire nel bel mezzo di un conflitto?
E guarda che non parlo di conflitto così, tanto per dire, tanto per fare scena.
Hai mai provato a metterti in mezzo ad una lite, anche la più stupida, tra due condomini?
Ah, sì? Beh, ritieniti fortunato ad essere ancora in piedi.
Ma non credo tu abbia mai provato a metterti in mezzo a due coniugi, arrivati alla fine della loro strada insieme.
Amico, ti assicuro che sono cazzi.
Quelli sono in grado di travolgere come un caterpillar qualunque cosa si trovi sulla loro strada. Anche dei ragazzini innocenti che hanno commesso il solo errore di trovarsi al posto giusto nel momento sbagliato.
Roba che, per convincerli a tornare insieme o, quanto meno, a non lasciare troppi cadaveri sulla loro strada, dovresti andarci in assetto tattico da battaglia. Con tanto di psicologi, mediatori familiari, assistenti sociali e videocassette zeppe di puntate registrate di “C’è posta per te”.
Ed invece ti ritrovi ad affrontarli da solo, con in mano un codice, un foglio e una penna. E nelle tasche un pò di pazienza. Tanta pazienza, va. Che è meglio.
Inizi a capire di cosa stiamo parlando?
Sì, esatto. E’ più qualcosa tipo le missioni dei caschi blu.
Esattamente come loro interveniamo in pieno conflitto.
Esattamente come loro lo facciamo con armi spuntate.
Esattamente come loro abbiamo l’obiettivo dichiarato di portare la pace, o, quantomeno, un ragionevole compromesso.
Ma, a conti fatti, esattamente come loro, l’unica cosa che possiamo fare, il più delle volte, è cercare di tirarci fuori dalla guerra facendo meno danni possibile. Ed affermando principi e regole che, nella maggior parte dei casi, resteranno lettera morta.

Ma per fortuna fare il giudice civile non è soltanto questo.
E’ anche prendere coscienza del fatto che la verità non esiste.
Cosa dici? Hai ragione, sono d’accordo. Non c’era bisogno di mettersi a fare il giudice civile per imparare questa banalità.
Ma, forse, c’era bisogno di fare il giudice civile per capire fino in fondo quanto fosse vera questa banalità.
D’altronde, si dice che ogni luogo comune sia tale perché contiene un fondo di verità.
In questo caso, te lo assicuro, c’è molto di più di un fondo.
Hai mai visto Rashomon, il film di Kurosawa? Beh, io sì e lo trovo straordinario. Ogni volta che lo guardo. O meglio, ogni volta che lo guardavo. Perché, da quando faccio il giudice civile, non riesco più a guardarlo. Non è che non mi piaccia più, è soltanto che... è come se lo guardassi continuamente.
Ogni giorno.
E non per una sola volta al giorno. Ma almeno dalle venti volte in sù.
Succede ogni volta che apro un fascicolo. Leggo l’atto di citazione ed esclamo tra me e me: “Cazzo! Come hanno potuto fargli questo? Questo Tizio ha ragione da vendere!”. Poi inizio a leggere la comparsa di risposta e vedo le mie certezze vacillare come quelle di uno spettatore che si è appena alzato dalla sala dopo la fine di Inception.
Insomma, è come se ogni volta che apri un fascicolo assistessi ad un remake di Rashomon. Soltanto con un’ambientazione diversa.
Ed ogni volta che lo richiudi l’unica certezza che puoi sperare di avere è di averci provato in tutti i modi ad avvicinarti alla verità. Che, molto probabilmente, se ne sta acquattata da qualche parte, lontano dalle carte.
Sì, lo so. E’ frustrante. Ma chi ha mai detto che quello del giudice civile è un lavoro pieno di soddisfazioni?
Però, in fondo, una piccola soddisfazione c’è. Quando una persona si avvicina a te, in un qualunque tipo di discussione, che si tratti di politica, di economia, di religione, o delle eliminazioni agli ultimi provini di X-Factor, e ti sciorina certezze manco fossero pop-corn, dentro di te sorridi, provando un misto di commiserazione ed invidia per quella persona che è ancora tanto convinta delle sue verità.
Che è ancora tanto convinta dell’esistenza della Verità.

Ok, ho capito. Non ti basta.
Giustamente, hai letto la parola elogio nel titolo e ti aspettavi un panegirico.
Fammici un attimo pensare e ti dico qualcosa di positivo sul fare il giudice civile.
... ... ...
... ... ...
... ... ...
Ecco! Trovato! Facendo il giudice civile svolgi un lavoro utile alla società.
Non ti piace? Neanche a me. Suona banale. E poi, tutti i giudici, anche i pubblici ministeri ed i giudici penali svolgono un lavoro tendenzialmente utile alla società.
... ... ...
Ecco, ho trovato.
Facendo il giudice civile acquisisci capacità di direzione del traffico degne di quelle dei vigili urbani. Ma non di un vigile urbano qualunque, eh? Pensa, chessò, al vigile urbano che sta all’incrocio tra Piazza Venezia e via del Corso. Sì, quello che imita Albertone. Ecco, facendo il giudice civile diventi in grado di gestire persino un incrocio come quello. Ogni udienza, in fondo, è anche un’attività di smistamento del traffico. Un test per mettere alla prova le tue capacità vigile urbano in pectore: solo che al posto delle macchine ci sono i fascicoli. Ed alla guida gli avvocati, incazzati, a volte giustamente, altre volte senza un valido motivo apparente. Proprio come gli automobilisti.
Troppo poco?
Beh, allora potrei dirti che ogni fascicolo ti costringe a riaprire i libri che ti eri illuso di aver messo a prender polvere nella libreria di casa ed a rimetterti a studiare, per verificare se le tue poche certezze giuridiche sono state o no spazzate via dall’ultimo orientamento della Cassazione.
Riprendere i libri.
Rimetterti a studiare.
Suona da sfigati, eh? Hai ragione.
... ... ...
Beh, allora senti questa: studiare un fascicolo e risolvere il relativo caso è avvincente come leggere da capo a fondo un numero de “La Settimana Enigmistica”.
Come dici? Non ti convince. Mi sa che anche stavolta hai ragione. E poi, non so tu, ma io mi sono sempre fermato al terzo rigo del cruciverba in prima pagina, quello con la foto del personaggio da indovinare.
Sotto questo punto di vista, credimi, un fascicolo civile è molto più avvincente.
A meno che non si tratti di una divisione ereditaria, ovviamente.
... ... ...
Allora, senti questa: facendo il giudice civile hai la possibilità di indossare, di volta in volta, i panni del medico, dell’architetto, dell’ingegnere, dello psicologo e così via. Persino, se hai culo, quelli dell’agronomo.
Come dici? Beh, confesso che non posso darti torto.
In effetti, se volevi fare il medico, l’ingegnere, o l’architetto non ti mettevi a studiare legge.
Nulla da obiettare.
Non fa una piega.

Insomma, devo essere sincero.
Non posso dirti che quello del giudice civile sia un lavoro dinamico, come quello di chi conduce un’inchiesta.
Né che sia avvincente e carico di suspense come cercare di individuare il colpevole di un delitto.
Però, forse, una piccola cosa posso dirla.
Stare lì, dietro alla scrivania, senza rialzi, divisioni formali, steccati o distanze artificiali, con le persone che siedono di fronte a te, spesso ti accerchiano, e parlano e gridano e si lamentano e qualche volta piangono, nella speranza che tu possa fare per loro ciò che fino a quel preciso momento nessuno è stato in grado di fare, significa prendere la rincorsa e, nudi, senza l’aiuto di pinne, fucili ed occhiali, fare un bel tuffo.
Per immergersi dentro all’umanità. Fino in fondo.
E scusami se ti sembra poco.

20.10.10

E' così che finisce tutto?


È così che finisce tutto?
Con due persone sedute una affianco all'altro, non più di fronte ad un altare, ma davanti ad un giudice?
Con due sguardi che vagano senza meta imbarazzati pur di riuscire a non incontrarsi?
Con i figli assegnati all'uno o all'altro come parti di un bene in divisione?
Con la settimana frammentata in piccole porzioni di tempo fatte di visite cronometrate, di passeggiate col papà, di domeniche dai nonni, e di pomeriggi in compagnia dello psicologo?
Con i doveri e i piaceri quantificati nell'importo di assegni da versare?
È qui che finiscono le promesse di eternità, gli scambi di sguardi complici e adoranti, le lacrime di gioia?
Nelle pieghe di un fascicolo sgualcito?
È DAVVERO così che finisce tutto?