20.10.14

Quando mi lasci ti cancello

Ci avete fatto caso? Quando due persone si lasciano le foto sul profilo Facebook che li ritraevano insieme, come per magia, spariscono.
Interi album di viaggi e vacanze vengono cestinati senza pietà. 
Foto di pranzi, cene, aperitivi, abbracci, baci, coppie di piedi, dita che si intrecciano svaniscono nel nulla.
Addirittura alcune immagini vengono ingrandite, tagliate e modificate fino a rimuovere quelli che fino a poco tempo prima ne erano sorridenti protagonisti. E di cui, quando l'operazione di ritocco delle foto non è proprio perfetta, se tutto va bene, rimane solo qualche pezzo di arto a ricordarne l'esistenza. 
Come i fratelli di Marty McFly, che scompaiono un pezzo dopo l'altro dalla foto che ha in tasca mentre suona Johnny B Goode alla festa in cui i suoi futuri genitori si baciano per la prima volta.  
In realtà, non è che si tratti di un fenomeno poi così nuovo: in fondo, la prima (o al massimo seconda o terza) cosa che uno fa dopo essersi lasciato è proprio cercare di eliminare tutto quello che in qualche modo ci ricorda la persona con cui stavamo, in primis le foto.
Solo che con i social network di mezzo le cose si sono complicate un po'. 
Perché possiamo illuderci di cancellare fotogrammi passati divenuti all'improvviso così ingombranti ed indesiderati, stando ben attenti a rimuoverli dal nostro profilo in maniera chirurgica, come in quel gioco di tanti anni fa quando dovevamo estrarre organi da un malcapitato paziente di plastica senza far scattare l'allarme. 
Ma non possiamo andare in giro a ripulire anche le foto disseminate sui profili altrui. 
Quelle scattate dai parenti, dagli amici, dagli amici degli amici, in occasioni speciali, o semplicemente durante un giorno qualunque.
Ed ecco, quindi, che, quando meno te lo aspetti, riaffiorano le immagini. 
E con esse i ricordi.
Si insinuano, come uno di quei bug fastidiosi capaci di bloccare una partita all'Amiga 500 e di farci imprecare davanti ad uno schermo. 
Sembra quasi che siano lì a provocarci.
E a ricordarci che, per quanti sforzi facciamo, che lo vogliamo oppure no, di quello che è stato, da qualche parte, fuori e dentro di noi, rimarrà sempre una traccia.

14.10.14

Dangerous di David Guetta o Della canzone pop perfetta


Come si scrive la canzone pop perfetta oggi, nell'ottobre 2014?
Così:

Regola n. 1: la canzone pop perfetta è quella che riesce ad essere al passo coi tempi.
Regola n. 2: la canzone pop perfetta è quella che riesce ad essere al passo coi tempi senza dimenticare quello che è c’è stato fino all’altro ieri e lasciando intravedere quello che verrà.
In questo senso il pezzo del famoso dj francese è perfetto: la base, suonata inizialmente da un pianoforte che presto lascia il passo a sintetizzatori e chitarre distorte, ha un ritmo sincopato, perfetto per descrivere la frenesia di un’epoca che ha fatto della velocità il suo totem indiscusso.
Ma questo solo se ci si ferma ad un primo ascolto superficiale e, per l'appunto, veloce.
Perché la linea melodica di fondo fatta di sintetizzatori evoca reminiscenze passate: i mai sufficientemente rimpianti anni '80.
Ed innesca un cortocircuito con l'immaginario cinematografico degli ultimi anni, dove sempre più spesso sono questo tipo di suoni a farla da padroni.
Pensate alla canzone sui titoli di testa di Drive, subito dopo la rapina iniziale tutta ripresa in soggettiva nella prospettiva del guidatore, con la macchina da presta che stringe sulle mani di Ryan Gosling salde al volante.

E non solo: c'è, nella linea di chitarra che sostiene l'intera canzone del dj mangiarane, che si ripete come in un loop infinito, anche un richiamo al suono di altri dj che hanno, con la loro musica, rotto ogni barriera tra musica dance e pop, come i Daft Punk.
E poi, beh poi, c'è tutta la contemporaneità che una canzone pop degna di questo nome deve avere: il ritornello fatto di poche parole efficaci ripetute in maniera quasi ossessiva ("I don't know where the lights are taking us/But something in the night is dangerous/And nothing's holding back the two of us/Baby this is getting serious/Oh oh oh/Dangerous/Oh oh oh").
Il cantato al confine col rappato.
La voce di Sam Martin, facilmente riconoscibile, eppure non catalogabile in maniera netta né nella musica pop, né in quella dance.
Probabilmente perché riconducibile ad un altro tormentone degli ultimi mesi perfetto ibrido dei due generi.

Ammesso che abbia ancora un senso parlare di pop e dance come di due generi diversi.
Perché, se c'è una cosa che Dangerous dimostra, o meglio conferma, è che se vogliamo ascoltare della buona musica pop, o meglio, della grande musica pop, non dobbiamo più guardare alle popstar e alle rockstar tradizionalmente intese.
Ma ai deejay.
Specie da quando il brit-rock è sparito, definitivamente affossato dalle risse tra i fratello Gallagher e dalle evoluzioni (?) dei Radiohead e del Damon Albarn solista.
Specie da quando chi provava a fare del buon pop con un minimo di personalità (i primi Maroon 5 su tutti) ha scelto di abbandonare la strada intrapresa per consacrarsi a vocoder e sintetizzatori (non a caso due marchi di fabbrica della musica dance degli ultimi quindici-vent'anni).
E allora non è un caso Chris Martin, uno che ha perso la moglie ma non la capacità di scrivere canzoni pop, per arrivare in cima alle classifiche con il cupo e malinconico Ghost Stories si sia rivolto ad Avicii per portare a casa il più classico degli specchietti perle allodole.
E che gli U2, pur essendosi intrufolati negli IPhone di mezzo mondo come un Trojan qualsiasi, non riescano a sfondare davvero pagando l'assenza di un tormentone in grado di trascinare il loro ultimo cd.

Forse proprio perché, persi nel loro pellegrinaggio dai produttori più in voga del momento (Ryan Tedder e Paul Epworth), si sono dimenticati di bussare alla porta di un deejay.