Un concerto.
Tutti siamo intenti a riprenderlo con gli smartphone mentre la cantante, sul palco, pochi metri davanti a noi, sputa fuori l'anima.
Anche se non ce ne rendiamo conto abbiamo fatto una scelta. Chiara, precisa: costruirci un piccolo souvenir della serata, fatto di immagini sghembe, tremolanti ed oscure, di suoni distorti e coperti da voci stonate, piuttosto che goderci lo spettacolo, vivere il momento, quel momento, senza il filtro di uno schermo.
Pensando solo a noi ed a chi ci sta accanto in quel momento, e non a quanti metteranno un "Mi piace" sotto il nostro video dopo che lo avremo condiviso.
Un negozio di hot-dog.
Dietro il bancone un ragazzo che, in velocità, senza fermarsi un attimo, arrostisce würstel, riscalda panini, frigge patatine, raccoglie i soldi e da il resto. Tutto lui, da solo. Nessun altro ad aiutarlo.
Qualcuno, nella fila, incomincia a lamentarsi. Sta aspettando da troppo tempo.
Non lo sfiora neanche, almeno per un attimo, l'idea di mettersi nei panni di quel ragazzo, dall'altro lato del bancone. Che lavora ininterrottamente da ore e ore e dovrà farlo ancora per chissà quanto, nel caldo provocato da piastre roventi, friggitrici e marchingegni per scaldare i würstel.
Ma, a pensarci bene, non è colpa sua.
È che, senza nemmeno rendercene conto, abbiamo smesso di provare empatia.
È che, senza nemmeno rendercene conto, abbiamo smesso di provare empatia.
Persi come siamo, nei ritmi frenetici e insensati delle nostre vite, abbiamo dimenticato quanto sia importante l'empatia.
Quanto sia necessaria, per poterci dire umani.
Per poterci considerare veramente umani.
Nell'unico senso possibile.
Per strada.
Una ragazza, camminando a passo veloce tra la folla, ne butta per aria un'altra. Anziché chiederle scusa va dritta per la sua strada e, al mormorio dell'altra, risponde biascicando qualche insulto.
Quand'è che siamo diventati così violenti? Così aggressivi? Così intolleranti? Pronti a scagliarci contro l'altro anche quando non ha nessuna colpa? Anche quando siamo i primi ad aver sbagliato?
Ché la parola scusa è sempre la più difficile da pronunciare, come diceva una nota canzone di qualche tempo fa.
E l'attacco resta pur sempre la miglior difesa.
Fa niente se a furia di abituarci ad aggredire siamo diventati sempre più simili agli animali.
Tanto, abbiamo smesso da un pezzo di comportarci da esseri umani.
Di essere umani.
Al ristorante.
Ci portano una pizza. È calda, profumata.
Dovremmo agguantarla con le mani e strapparla a morsi.
Invece tiriamo fuori il nostro smartphone, quando non lo abbiamo già appoggiato sul tavolo.
Incominciamo a scattare foto. E, per farlo nel migliore dei modi possibili, finiamo per farla raffreddare. Per farle perdere il gusto. Per far svanire quel buon odore.
Di tanto in tanto guardiamo la persona seduta di fronte a noi, di sfuggita.
Raramente ne incrociamo lo sguardo, quasi per caso, distratti come siamo a far scorrere le dita tra un'applicazione e l'altra. Mentre postiamo una foto, sbirciamo tra gli squarci di vita altrui, rispondiamo ad un messaggio su WhatsApp. O diamo un'occhiata alle previsioni del tempo. Dio, quand'è che sono diventate così importanti le previsioni del tempo?
Compiamo questi gesti in maniera automatica, meccanica, sempre più naturale.
Eppure è anche così che, un click dopo un altro, abbiamo smesso di essere umani.
È proprio così che, un click dopo un altro, abbiamo smesso di sentirci umani.
Nell'unico senso possibile.
Nell'unico senso possibile.
E allora chiudilo quel cellulare, che non ti serve a niente.
La persona più importante della tua vita, con ogni probabilità, in questo momento, è lì, accanto a te.
Accarezzala.
Parlale.
Scherzaci.
Sorridile.
Ascoltala.
Sforzati di comprenderla.
In fondo basta poco, per ritornare umani.
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