8.3.15

Manca qualcosa.


Di fronte al mare la felicità è un’idea semplice.
Jean-Claude Izzo


Elena non portava sulle mani i segni dell'amore.
Non c'erano anelli, fedi, fedine. Nulla che potesse manifestare all'esterno la presenza di un amore nella sua vita. Ma non era solo una questione di gusto, di apparenza. L'assenza di quei tipici segni rivelava la verità: la vita di Elena era priva di amore. Lo era da molto tempo, ormai. Troppo. Quanto tempo era passato dall’ultima volta che aveva provato qualcosa che si potesse anche solo lontanamente definire amore? Quattro anni? Cinque? Ormai il ricordo di quell’ultima storia era talmente lontano da affacciarsi nella memoria confuso e frantumato, come un film del quale si ricorda nitidamente solo qualche scena, qualche faccia, senza riuscire a ricostruirne né la trama, né il titolo. Ma l’assenza di amore nella vita di Elena non si limitava ai rapporti con l’altro sesso: era un’assenza più ampia, totale. C’era, anzi non c’era, il rapporto con la madre, finito da un giorno all’altro per motivi futili ed incomprensibili come quelli alla base di una guerra. E quello con Luigi e Mario, i due fratelli, ai quali continuava a legarla nient’altro che il sangue. Perché, come andava ripetendo sua nonna Francesca: - I figli sono come i meloni. Alcuni escono bene. Altri male. – Ed evidentemente con Luigi e Mario era andata così: erano usciti male.


Elena prese posto sull’autobus che ogni mattina la portava dal Vomero, il quartiere in cui viveva, al Centro Direzionale, dove lavorava come segretaria in uno studio legale. Era il solito posto, il suo preferito. Quello con le due fila di sediolini che si fronteggiano. Quando poteva lo sceglieva sempre perché raddoppiava le possibilità d’incontrare qualcuno che conoscesse. Oppure di fare la conoscenza di un perfetto sconosciuto. O, semplicemente, d’incrociare uno sguardo interessante, in grado di portarla, anche solo per la durata di quel tragitto, in un luogo lontano. In un luogo diverso. In un luogo dove le cene non fossero fatte di monoporzioni.
E di silenzio.
Ci sperava sul serio che succedesse, anche se l’esperienza le aveva insegnato che queste cose capitano solo nei film, specie in quelle commedie romantiche americane che adorava, fiabe fatte di attori in carne ed ossa. Ma non nella vita, che, nel suo caso, era così terribilmente vuota che non sapeva neanche da che parte iniziare, per provare a riempirla.


Elena attivò la modalità random dell’I-Pod. Il suo, inseparabile, I-Pod verde fluo. Per nessun motivo al mondo si sarebbe separata da quell’oggetto (ma poteva davvero liquidarlo come un semplice oggetto?). L’unico capace di tenerle compagnia in mezzo a tutto il silenzio che la circondava. Era diventato parte di lei al punto da avervi fatto incidere sopra il suo nome.
Elena.
Perché se c’era una cosa che le aveva salvato la vita più di una volta, beh, quella era la musica. La musica la distraeva. La portava in mondi lontani, allontanandola dai pensieri negativi. Come quello di essersi assuefatta alla mancanza di amore. Al torpore sentimentale nel quale era finita. Al punto che la paura più grande, anche di quella di restare sola, era che, se soltanto le fosse capitato di incrociare lungo la strada qualcosa di lontanamente simile all’amore, non sarebbe riuscita a riconoscerlo.
E sarebbe andata avanti, come nulla fosse.


Nelle cuffie irruppe una musica techno-house, svegliandola dai pensieri nei quali era immersa. – Rischi della modalità random. – Pensò tra sé e sé, mentre col pollice destro schiacciava il pulsante forward dell’I-Pod in cerca di un brano più leggero. Più adatto alla condizione sonnecchiante delle sette e trenta del mattino. “Drive” dei The Cars. Uno dei suoi brani preferiti. - Mi è andata bene.  – Pensò. – Difficilmente la selezione casuale dei brani.. – Non fece in tempo a completare il pensiero che si interruppe. L’uomo seduto di fronte a lei le stava parlando. Era anziano, l’aria trasandata, il collo avvolto da due sciarpe di colore diverso che prendevano direzioni opposte.
- Vedete? Questa è la conferma. Non avete nemmeno sentito cosa vi ho detto. – Le disse l’uomo anziano, agitando le mani nell’aria come se stesse allontanando dei moscerini. Quasi le sembrò che la stesse rimproverando. Anzi, senza IL “quasi”. Il tono era proprio quello di un rimprovero.
- Mi scusi, ma io… - Elena si tolse le cuffie e provò a giustificarsi. Anche se proprio non riusciva a capire perché avrebbe dovuto giustificarsi con uno sconosciuto, e per giunta con uno sconosciuto che gesticolava ed aveva un tono scorbutico.
- Lasciate stare. Quello che vi dovevo dire ve l’ho detto. Alla prossima fermata devo scendere. Meglio che inizio ad alzarmi, se non voglio restare bloccato a sentire questa schifezza di musica che state sentendo. – Tagliò corto l’uomo, facendo fare un ennesimo giro intorno al collo alle due sciarpe.
- Senta, io… - Disse Elena, provando a trasformare in un dialogo quello che ormai appariva anche agli altri passeggeri come un interminabile monologo.
- E poi, inutile parlare con voi giovani. – Concluse lapidario l’uomo, alzandosi dal sediolino e dirigendosi verso la porta centrale dell’autobus. – E non andate in giro a suicidarvi ed a lamentarvi della solitudine! – Riprese a sorpresa l’uomo, tornando sui propri passi come il tenente Colombo, quando, dopo aver interrogato il principale indiziato, si ricordava tutt’a un tratto di avere un’ultima cosa da chiedergli. – La verità è che fate di tutto per essere soli, voi giovani. T-u-t-t-o. – Scandì lentamente, voltandosi e scendendo dall’autobus mentre imprecava sottovoce il malcapitato dio di turno quel giorno.
Elena rimase immobile, incerta sul se sentirsi più turbata per la ramanzina subita o per il fatto che quel signore anziano sembrava aver gettato uno sguardo dentro la sua testa e, fra tutti i pensieri, aver pescato con implacabile precisione quello che la assillava di più.


Bruce Springsteen cantava di come gli occhi tristi non mentono mai, quando Elena si accorse che il ragazzo che aveva preso il posto del vecchio di fronte a lei la stava scrutando da cima a fondo, dagli stivali beige al cappello di lana arancione col pon-pon viola, che esteticamente non era il massimo, ma aveva l’indubbio merito di tenerla al riparo dai fastidiosi attacchi di sinusite, particolarmente frequenti durante l’inverno.
- Elena! Elena! Sei proprio tu! – Esclamò il ragazzo, prima che Elena potesse scagliargli contro una delle occhiatacce, efficaci come uno sfollagente, che usava per tenere alla larga attaccabottoni indesiderati e molesti.
- Io… S-sì. Mi chiamo Elena, ma… - Niente occhiatacce, pensò. Mi ha chiamato per nome. Evidentemente mi conosce. - …ci conosciamo? – Gli chiese.
- Direi proprio di sì. – Fece il ragazzo, sfoderando un sorriso che avrebbe detto sincero. E con un tono di voce dal quale traspariva felicità. – Però ti vedo sorpresa. Proprio non ti ricordi di me? - Le chiese, ed il sorriso gli scappò dal volto, andandosi a nascondere chissà dove.  
- Scusa, ma.. Mi spiace. Temo di non... – Fece Elena, ma, pensando che l’espressione sorpresa che doveva esserle apparsa sul volto insieme alla risposta esitante fossero la causa dell’improvvisa sparizione del sorriso dal volto del ragazzo, provò a rimediare. – Aspetta. Fammi indovinare. Lavoro!
- Acqua.
- Amici comuni!
- Acqua.
- Aspettaspetta! Hai un viso conosciuto. Ho capito: scuola! Eravamo alla stessa scuola!    
- Fuocherello.
- Ho capito! Eravamo in classe alle medie. Marcello! Ecco chi sei!
- Sbagliato! Ma ci sei andata vicina…
- Non sei Marcello? - Aliotta. Biondi. De Felice. Iniziò a ripercorrere mentalmente l’elenco dei compagni di classe delle medie che, per uno di quei perversi ed insondabili meccanismi della memoria, ricordava perfettamente. – Di Maio. Ecco chi sei: Giovanni Di Maio!
- Bravissima! – Il sorriso tornò definitivamente sul volto del ragazzo dopo essere riapparso solo ad intermittenze quasi impercettibili.
- Però… Lo devi ammettere: era difficile riconoscerti. Sei cambiato molto. Ti ricordavo con i capelli a spazzola, non lunghi e ricci.
- Beh, è passato tanto tempo. Tu però sei sempre carina. Anzi, lo sei ancora di più, se possibile.
- ..grazie. Sei gentile. – Rispose Elena, superando a fatica l’imbarazzo per il complimento ricevuto. E spiazzata dal fatto di non aver avvertito la sensazione di fastidio con la quale era abituata ad accogliere i complimenti. – Molto. – Prese coraggio. – Sei molto gentile. – E si decise a ricambiare il sorriso.
- Di niente. È il minimo che posso dir.. – Rispose Giovanni, interrompendosi alla vista di una donna alta dai capelli biondi che si stava dirigendo verso il posto libero accanto a lui. – Mi spiace, ma… Devo scendere. Spero di rivederti.
- Ah! – Sospirò Elena, spiazzata dalla brusca interruzione ed angosciata per la fretta di dover fare immediatamente qualcosa per non sprecare quell’occasione che il Destino le aveva riservato. – Aspetta. Non scappare. Potremmo rivederci, se ti va, qualche volta.
- Ehm.. – Mormorò Giovanni, guardando verso l’alto in cerca di una soluzione. – Facciamo così: dammi il tuo cellulare e ti faccio uno squillo. – Disse, alzandosi e tenendo le spalle alla donna che si stava avvicinando sempre di più.
- Ok. 34815162342.
- Bene. Segnato. Ora scappo. – Disse, voltandosi. E si avviò all’uscita dell’autobus con passo spedito, tenendo lo sguardo basso per evitare di incrociare quello della donna.
- Ciao! A presto! – Rispose Elena, accennando inutilmente ad un saluto con la mano sinistra mentre con l’altra si rimetteva le cuffie.
- Solo per curiosità… - Intervenne la donna dai capelli biondi, prima che Elena potesse schiacciare il tasto play dell’I-Pod. – Come ha attaccato bottone?
- Scusi, ma io… Non capisco – Rispose Elena, domandandosi se per caso non fosse finita in qualche stupida candid camera.
- Aspetta. Te lo dico io. Ti ha detto di essere un tuo ex compagno di classe. Vero? – Chiese la donna, sporgendosi in avanti e guardando Elena dritta negli occhi.
- Si, proprio così, ma… Lo è. Stavamo nella stessa classe alle medie. E comunque scusi, ma… Proprio non capisco. Ci conosciamo? - Chiese Elena, infastidita dalla seconda intromissione spiacevole della giornata e dal tono ironico della donna.
- No, non ci conosciamo. Chiedevo solo così, tanto per sapere se il repertorio di quel tizio si è arricchito un po’…
- Ma lui… È davvero un ex compagno di classe. Ricordava anche il mio nome.
- Certo, come no. Sai, non ci vuole molto a conoscere il tuo nome. Ti chiami Elena, vero?
- S-si, ma… Come ha fatto?
- È inciso sul tuo lettore mp3. Lo avrà letto anche lui. Mi spiace deluderti, ma… È davvero bravo ad abbordare. Ci prova con tutte le ragazze che salgono su questo autobus. Oddio, non proprio tutte. Quasi tutte. Se non sono carine no.
- … … … - Elena non  riuscì a trovare le parole adatte. Si sentiva una stupida per esserci cascata così facilmente. E si sentiva svuotata. Ancora di più, se possibile. Come se l’inganno del finto Giovanni le avesse tolto l’ultimo briciolo di speranza che, da qualche parte, le era rimasto.
- Mi spiace. Capisco come ti senti adesso. Presa in giro. È successo anche a me. – Provò ad incoraggiarla la donna, rendendosi conto di aver incrinato qualcosa nella ragazza.
- Non si preoccupi. Sto bene. Non mi sento presa in giro. Non sento proprio nulla. – Elena chiuse il discorso. E prese a guardare la strada scorrere dal finestrino mentre con il pollice cercava di nuovo il tasto play.

Il Boss riprese a cantare da dove si era interrotto.
Elena guardò passare la fermata alla quale doveva scendere.
E quella successiva.
E quella successiva ancora.
Non sarebbe andata a lavorare, quel giorno.
Avrebbe inventato una scusa.
Dopotutto, non mancava mai.
Le era passata la voglia di lavorare, per quel giorno.
O, forse, le era passata la voglia di tutto.


Elena scese alla fermata dove aveva preso l’autobus.
Si diresse con passo veloce verso il portone del palazzo nel quale abitava, frugando nella borsa, in cerca delle chiavi. Arrivò e fece per aprirlo, quando il suo sguardo fu catturato da un piccolo scorcio, proprio sotto casa. Lì, dove la strada finiva per lasciare spazio ad un affaccio dal quale poteva scorgersi, così lontano eppure così vicino, il mare.


Elena non portava sulle mani i segni dell'amore.
Non c'erano anelli, fedi, fedine. Nulla che potesse manifestare all'esterno la presenza di un amore nella sua vita. Ma non era solo una questione di gusto, di apparenza. L'assenza di quei tipici segni rivelava la verità: la vita di Elena era priva di amore. Quando le capitava di parlarne si sforzava di tenere nascosto questa mancanza. Questo senso di vuoto. – Bene. – Rispondeva ad amici o presunti tali che le chiedevano come se la passasse. Si sforzava. Ma non ci riusciva del tutto. – Anche se… - Così aggiungeva, facendo spuntare un punto di domanda sul volto dei suoi interlocutori. - ..manca qualcosa.
Si avvicinò al parapetto, le braccia tese in cerca di un appoggio. Gettò lo sguardo verso il basso. Paura e voglia di cadere al tempo stesso. Fece qualche passo indietro ed andò a sedersi sulla panchina in ferro e legno, esattamente di fronte allo scorcio.
Beh, quel giorno non le sarebbe mancato proprio un bel niente. – Si disse. - Quel giorno sarebbe bastata a se stessa.
E prese ad osservare la luce riflessa nel mare.
Nel mare.






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