30.6.07

Soldi Spesi Bene.


Un bel po’ di anni fa ero al cinema per vedere “Godzilla” e prima di entrare in sala incontrai un tizio che usciva entusiasta dalla visione del primo spettacolo.
Disse che il film era un CAPOLAVORO ASSOLUTO nel suo genere e che non ci avrebbe affatto deluso.
- Non vi pentirete di aver scelto questo film. - Disse.
- Vedrete, non vi deluderà. - Ribadì.
- Sono soldi spesi bene. - Fu la frase con al quale si congedò sorridendo.

Il film si rivelò una delle più grandi cagate degli ultimi 30-40 anni (ma oserei dire del secolo).
All’uscita io e i miei amici andammo in giro per la città sulle tracce del subdolo individuo che ci aveva illusi parlando di capolavoro.
Volevamo riempirlo di legnate.
Purtroppo per noi e per sua fortuna non riuscimmo a scovarlo.

Ieri ho visto “Transformers”.
Ho visto un protagonista impacciato, nerd e simpatico come non se ne vedevano da un bel po’.
Ho visto Megan Fox sul grande schermo.
Ho riso di gusto grazie alle dosi massicce di umorismo che (per fortuna!) gli sceneggiatori hanno deciso di infilare nel film.
Ho visto autovetture e camion trasformarsi in robot in maniera assolutamente realistica e strabiliante.
Ho visto robottoni così grandi e grossi da occupare tutto lo schermo.
Ho visto Megan Fox sul grande schermo.
Ho visto citazioni e strizzatine d’occhio a un bel po’ di film vecchi e nuovi (da E.T. a Kill-Bill passando per Armageddon).
Ho visto il più grosso scontro tra robottoni mai visto al cinema.
Ho visto Optimus Prime chiudere il film con una frase presa pari pari dal cartone animato (roba da pelle d’oca!)
Ho visto Megan Fox (ma forse l’ho già detto…)

Questi sette euro e cinquanta sì che sono stati soldi spesi bene.
P.S. Forse, se proprio si deve muovere un piccolo appunto al film, Megan Fox non si è spogliata. Neanche un po’.
Peccato.
Beh, almeno ho scovato questo simpatico filmatino su YouTube dove la si può vedere in bikini…

26.6.07

Cresce l'attesa per Transformers...







..e soprattutto per la sua protagonista femminile!

E pensare che...


..c'è ancora qualche imbecille che liquida i fumetti come roba per bambini.
"Mamma, torna a casa" è un'opera dolorosa, intensa e struggente sull'elaborazione del lutto.
La mia recensione per ComicUs potete trovarla QUI.

21.6.07

La morra cinese del comunicare.


La morra cinese del comunicare segue regole strane.
Sono regole tutte sue.
Che è difficile comprendere.

C’è Elisabetta che guarda il mondo da una piccola finestra sul suo piccì.
La chiamano chat ma lei l’ha confusa con il mondo.
E crede che la parola “contatto” sia sinonimo di amico.
Ne ha ottantasette, equamente distribuiti tra ragazzi e ragazze.
Un elenco di contatti (pardòn, di amici) così lungo che per vedere chi è in linea e chi no ha bisogno di scorrere su e giù su e giù su e giù e poi giù e ancora giù quella benedetta rotella in mezzo agli occhi del topo.
Un elenco di contatti (ancora con questa parola? Vuoi proprio farla arrabbiare? Sono A-M-I-C-I) così lungo che soltanto per dire “ciao” a quelli collegati (in media ventisettevirgolacinque) le fanno male i polpastrelli.

Se giochi alla morra cinese del comunicare con Elisabetta puoi star certo che a vincere sarà la chat.
E le emozioni, qualunque esse siano, staranno tutte dentro un emoticon.

C’è Vittoria che ha tante vite diverse ma tutte passano attraverso i circuiti del suo cellulare.
Un tempo le piaceva parlare di persona, guardare la gente negli occhi, osservarne i gesti che accompagnano le parole.
Era una tradizionalista, lei.
Quando le hanno regalato quell’aggeggio, per poco non si metteva a piangere. All’inizio non voleva neanche saperne, di usare quellaffarelì, come lo chiamava lei.
Temeva di perdere la libertà, di sentirsi controllata.
Poi qualcosa è cambiato.
Altro che sentirsi controllata.
Era lei a controllare gli altri, uomini per lo più.
E non doveva fare quasi niente, solo usare bene quellaffarelì.
Poteva amare ed essere amata da tanti uomini contemporaneamente. E tutto grazie a quellaffarelì.
Poteva farlo senza paura di farsi scoprire.
Perché le parole mentono, ma gli occhi no.
E i suoi, di occhi, chi poteva vederli attraverso il segnale disturbato e singhiozzante di un cellulare?

Se giochi alla morra cinese del comunicare con Vittoria sappi che a vincere sarà il cellulare.
E le emozioni, qualunque esse siano, dureranno il tempo di uno squillo.

Poi c’è Gabriele che si tiene tutto dentro.
“La timidezza ti frega” gli hanno sempre detto e continua a dirselo anche lui, qualche volta, tanto per tenersi in allenamento.
Non ha mai rischiato, non ha mai espresso i suoi sentimenti, fino al giorno in cui ha scoperto l’esistenza degli SMS.
Gli amici glielo dicevano - usa gli SMS che andrai alla grande - ma lui non si fidava.
Ha fatto anche un salto su Wikipedia, per capire di cosa si trattasse. Short Message Service, ha letto e, pur non capendo una parola d'inglese, gli si è aperto un mondo.
Ci ha messo un po’ di tempo a capire come andavano usati, a capire che, se proprio non riusciva a starci dentro, quello che voleva dire, poteva metterne insieme due o anche tre e persino quattro.
Certo, c’era il rischio delle incomprensioni, c’era il rischio che arrivassero incompleti o, peggio ancora, che non arrivassero proprio.
Ma erano rischi che preferiva correre piuttosto che continuare a restare muto, o magari a girare e rigirare con le parole intorno alle cose al punto che neanche lui, alla fine, riusciva a ricordare cos’è che aveva intenzione di dire.

Se giochi alla morra cinese con Gabriele posso dirti fin da ora che a vincere saranno gli SMS.
E le emozioni saranno solo e soltanto quelle riconosciute dal sistema T9.

La morra cinese del comunicare segue regole strane.
Sono regole tutte sue.
A volte vince la chat.
A volte il cellulare.
Altre gli SMS.

Ma a vincere sempre è la solitudine.

19.6.07

Di catene, manette ed altri legacci.

Trailer originale del film Luna di Fiele (1992) regia di Roman Polanski


I rapporti di coppia sono rapporti di potere.
C’è sempre uno che comanda. Ed uno che obbedisce.
Uno che ferisce. L’altro che sta male.
Uno che vince. L’altro che perde.
Il pareggio è soltanto un’apparenza.
L’illusione di un equilibrio difficilissimo da trovare quando non impossibile.
Il preludio di una nuova resa più amara della precedente.
Perché incondizionata.

I rapporti d’amore sono rapporti di potere.
Fateci caso, ma quando parliamo dell’amore e delle sue conseguenze usiamo spesso termini ed espressioni che evocano la guerra.
“L’ha conquistata”
“L’ha colpito”.
“Si stanno facendo male a vicenda”.
“Sta a pezzi.”
“E’ distrutto”.
“E’ stato un duro colpo”.
Non è per niente un caso.
Le parole non mentono, semmai sono gli uomini a farlo.

Nei rapporti di coppia i compromessi sono all’ordine del giorno.
C’è un momento, quando uno dei due è ormai logorato dalle schermaglie quotidiane, fiaccato e pronto ad arrendersi, se ancora non lo ha fatto, o ad ammettere la sconfitta che si è già verificata sotto la superficie, in cui spunta la carta del compromesso.
È il jolly che consente di rinviare la resa dei conti finale, di far respirare un po’, di far guadagnare tempo e riorganizzare le idee.
Ma è anche l’esatto opposto, la nemesi in carne ossa e “allora facciamo così: oggi si esce con i miei amici domani con i tuoi” dell’energia spensierata, primordiale e disinteressata che caratterizza l’innamoramento nella sua fase iniziale.
Quella più pura.
Quando non pensiamo ad imporci ma, al massimo, ad esporci.
Quando siamo pronti a metterci in gioco, anche coprendoci di ridicolo, se necessario.
Spinti da un’energia incontrollata ed incontrollabile.
Dal desiderio di lasciarci andare.
Incoscienti, carichi di ottimismo e fiduciosi del fatto che, dall’altro lato, si starà pensando solo e soltanto ad amare.
E mai e poi mai ad avere la meglio.

Ottimisti e fiduciosi del fatto che, dall’altro lato si starà pensando solo e soltanto ad amare.
E mai e poi mai ad allestire una prigione con tanto di catene, manette ed altri legacci.

18.6.07

Nella vita bisogna schierarsi...

…e non parlo di stupidaggini tipo essere contro o a favore della guerra, essere democratici o conservatori, parteggiare per l’Uomo Paggio o per la Donna Paggista, essere pro o contro chi non risponde agli sms sgraditi, o scegliere se stare dalla parte di Capitan America o di Iron Man nella guerra civile che sta dilaniando l’universo Marvel.

No, parlo di cose ben più importanti.

Di scelte di campo che non consentono tentennamenti, ambiguità, ripensamenti.

Di scelte di campo definitive e cariche di conseguenze importanti.

Windows o Mac.

È questa la SCELTA per eccellenza.


Ed io, al riguardo, non ho alcun dubbio…


ps. tra stasera e domani i primi post scritti con l'aiuto del nuovo arrivato.

13.6.07

Il ritorno del Cavaliere Oscuro.


Nuova recensione per ComicUs.
La trovate qui.

12.6.07

La sindrome del fuggitivo.


Lavoro.

Indipendenza.

Responsabilità.

Matrimonio.

Basta che qualcuno incominci appena a sussurrare una di queste parole per far scattare l’allarme rosso.
E quando ha finito di pronunciarla è ormai troppo tardi.
Perché siamo già belli che in fuga.

Ecco, la sindrome del fuggitivo consiste proprio in questo.
È la paura di affrontare scelte importanti, di separarsi definitivamente dal guscio nel quale siamo cresciuti e vissuti.
Un horror vacui che chi prima chi poi ha colpito tutti (o quasi) i miei amici più stretti.
Me compreso.
Credevo di esserne immune e invece, alla soglia dei trent’anni, con improvvido ritardo, ha colpito anche me.
Da qualche mese a questa parte (più o meno da quando ho aperto questo blog) viene a farmi visita sempre più spesso.
Mi sussurra all’orecchio: vattene! Fuggi! Prima che sia troppo tardi…

Ma troppo tardi per cosa?
Non sarà forse che prendiamo troppo male eventi che andrebbero vissuti con più entusiasmo? Con una buona dose di sana e vitale incoscienza?
Impossibile rispondere.
Non c’è il tempo per farci queste domande, figuriamoci per provare a darci delle risposte (anche se io una sorta di spiegazione un po’ oscura e strampalata avevo già provato a darla qui).
La sindrome del fuggitivo ha preso il sopravvento.
Per assecondarla le proviamo tutte: rinviamo il momento della laurea, quello dell’ingresso nel mondo del lavoro, del fidanzamento “serio” e così via…
E tante circostanze esterne fanno il resto, dandoci una grossa mano a rimandare il momento in cui dovremo crescere.
È vero, viviamo in una fase in cui i tempi sono tutti spostati in avanti.
Il lavoro, il matrimonio, i figli. Tutto avviene molto più tardi di quanto avvenisse venti-trent’anni fa. Questo è indiscutibile.

Abbiamo alibi in grado di scagionare chiunque, è vero.

Però, forse, in fondo, ma proprio in fondo, ci va bene così.

Perché restare bambini è bello.
Riderci sopra è sempre meglio.
Dormire al sicuro male non ci fa.

E così ci guardiamo tra noi “fuggitivi” sorridendo compiaciuti e soddisfatti, come tanti Peter Pan che svolazzano leggeri sull’isola che non c’è.
Solo che l’isola non c’è sul serio.
E fra un po’ di tempo, neanche tanto per la verità, se continuiamo di questo passo, rischiamo di atterrare sull’acqua.
E di bagnarci di brutto.

Allora io ho deciso.
Butto via lo zaino e cerco dei punti fermi.
Voglio farmi trovare pronto.
La prossima volta che qualcuno mi offre un’opportunità di lavoro più o meno accettabile o una ragazza mi parla di matrimonio non mi tirerò indietro.
Sì, eccomi.
Incomincio già a sentirmi pronto.
Magari… se proprio fosse possibile… qualche altro mese di libertà non mi dispiacerebbe.
Qualche altro mese di irresponsabilità.
Sei… sette…
Facciamo un anno, e chiudiamo la trattativa.

Ok.
Io sono pronto (tra un anno intendo…) ad assumermi le mie responsabilità.
E voi?

8.6.07

Pro-memoria.


Quando ti lamenti perché hai sbandato troppo e non hai saputo tirar dritto.

Quando te la prendi con te stesso perché non stai dando il massimo.

Quando rinunci a qualcosa di divertente.

Quando resti chiuso nella stanza e non vai a vedere che aria tira fuori.

Ricorda.

Ricorda l’equazione.

3 anni e 6 mesi
150 settimane
1050 giorni
8400 ore
504000 minuti
30240000 secondi
=
30 minuti
=
N. I. x 2

6.6.07

Lo Schermo Sbagliato (5).


Allora, vediamo se sei stato attento fino a questo momento.
Abbiamo parlato di cinema (molto) e di tv (poco).
L’abbiamo fatto citando pellicole degli anni ’80 e altre molto più recenti.
Abbiamo fatto esempi e qualche digressione, ma il cuore del discorso può riassumersi in due sole frasi.
Le ricordi?
No.
Allora te le ripeto (e ci metto anche un bel po’ di spazio tra l’una e l’altra così risaltano meglio sulla pagina di blogspot):


“IL CINEMA AMERICANO DA SOLO NON È PIÙ CAPACE D’INFLUENZARE IL NOSTRO IMMAGINARIO”.


“LA TELEVISIONE E’ IN GRADO DI FARLO”.


Ci sei?
Bene.
Cerca di tenerle a mente, perché, in fondo, è su questi due punti che si gioca il discorso che stiamo facendo e che andremo a fare.
Della prima affermazione ho già parlato abbastanza nelle puntate precedenti.
Adesso siamo passati a spiegare la seconda.
C’ho passato un po’ di tempo a ragionarci su, a cercare di capire come fanno le serie televisive ad avere una presa così forte sul nostro immaginario, e credo di aver trovato delle risposte.
Alcune banali, altre un po’ meno.
Ma le ho trovate.
Però di questo parleremo più approfonditamente nelle prossime puntate.
Prima voglio farti qualche altro esempio per farti capire quanto le serie tv influenzino il nostro immaginario.
Il primo riguarda questo signore qui:


Te lo ricordi?
C’eravamo lasciati proprio accennando a lui, la puntata scorsa.
Non so tu, ma io ho sempre pensato che i medici freddi, brutali e scostanti non rendano un buon servizio alla loro categoria.
Di più, credo che aumentino la diffidenza: se sto male voglio qualcuno che capisca la mia condizione, che si immedesimi, non un tipo che mi esamina come se osservasse un vetrino o una cavia da esperimento.
Poi è arrivato House.
Che è proprio come quei medici di cui stavo parlando.
Freddo, distaccato, irritante. Piuttosto presuntuoso, anche.
Eppure visto lì sul piccolo schermo, alle prese con casi disperati in cui nessuno sembra capirci qualcosa, ci è apparso come il miglior medico del mondo.
Sì, è un bastardo saccente e sarcastico, ma è anche il miglior medico del mondo.
E, facendo gli scongiuri, se ci capitasse qualcosa vorremmo tanto che uscisse dalla scatoletta luminosa per venire qui a risolvere in quattro e quattr’otto i nostri problemi.

Questo vuol dire che la televisione c’è riuscita.
Eccome se c’è riuscita, a colpire la nostra immaginazione facendo impazzire milioni di persone nei quattro angoli della terra per un medico antipatico e scostante.
Ma ancora di più i geniacci che producono e scrivono le serie tv a stelle e strisce sono riusciti a fare con i tipi che vedete qui sotto:


Belli, eh?
Sono i protagonisti di Grey’s Anatomy, riuscitissimo mix di E.R. e Sex and the City.
Qui l’hanno fatta davvero grossa.
Ci hanno fatto maledire e stramaledire il giorno in cui abbiamo deciso (per chi ha deciso così, ovviamente…) di NON diventare medici.
Da quando ho iniziato a seguire questa serie non passa una puntata senza che rimpianga la scelta di non aver intrapreso la carriera medica.
Il motivo?
Semplicissimo.
E se avete visto anche una sola puntata potrete immaginare a cosa sto per riferirmi.
In quell’ospedale di Seattle trombano dalla mattina alla sera.
Tra un trapianto di cuore e un’operazione al cervello trombano.
Tra un’anestesia totale ed una parziale rombano.
E quando non lo fanno, parlano di trombare.
A saperlo prima che la vita del praticante era questa, col cavolo che mi iscrivevo a legge!

Tornando seri per un attimo, è evidente che la realtà non è quella di Grey’s Anatomy (o almeno credo…).
Non è questo che conta.
Ciò che conta è che il meccanismo narrativo messo in piedi dagli autori di questa serie ha fatto sì che, ancora una volta, la nostra immaginazione venga colpita.
Dopo questa serie inevitabilmente finiremo con l’associare gli ospedali oltre che all’angoscia, alla disperazione, alla paura, alla speranza, alla vita e alla morte anche al sesso.
E non è roba da poco.
Pensa per un attimo al cinema e prova a vedere se ti viene in mente un film che sia riuscito a mettere insieme due cose apparentemente tanto distanti come il sesso e la morte in maniere così efficace e credibile.
C’hai pensato?
A me non ne viene in mente nessuno.

E così torniamo al punto iniziale.
Alle due frasi.
Le ricordi?

“IL CINEMA AMERICANO DA SOLO NON È PIÙ CAPACE D’INFLUENZARE IL NOSTRO IMMAGINARIO”.

“LA TELEVISIONE E’ IN GRADO DI FARLO”.
E gli esempi potrebbero continuare.
Se dico “naufraghi”, a cosa pensi?
Sì, forse ricordi Tom Hanks che sfrega il fuoco e parla con un pallone, ma io credo che ti vengono in mente soprattutto loro, i naufraghi di Lost.


Ormai nell’immaginario collettivo l’ISOLA disabitata (mica tanto..) e dimenticata da Dio per eccellenza è quella di Lost.
La zattera è quella di Lost.
I naufraghi sono quelli di Lost (lo so, già l’ho detto ma lo ripeto così rafforzo l’idea).
La botola è quella di Lost. (Ok, lo ammetto la botola non è proprio l’immagine che associamo di solito ad un naufragio… Ma lo vedi? Anche questo lapsus ti da l’idea della forza immaginifica di queste serie. Colpiscono a tal punto la nostra immaginazione da farci ricollegare due cose così diverse tra loro una botola ad un’isola deserta).

Bene.
Credo che gli esempi possano bastare.
Adesso dobbiamo capire come lo fanno.
Come riescono a far presa sulla nostra immaginazione.
Come diavolo fanno?
Alcuni motivi sono evidenti: i protagonisti delle serie televisive entrano nelle nostre case senza che noi dobbiamo fare alcuno sforzo che non sia premere il tasto di accensione della tv.
Non solo: vengono a trovarci ogni settimana, aumentando così la nostra familiarità con loro, facendoci affezionare a loro.

Queste ragioni sono evidenti ed intuitive, ma ce ne sono altre meno evidenti, meno intuitive.
Una, tra tante, è quella determinante, almeno a mio modesto parere.
Quella in grado di fare tutta la differenza del mondo.
Ne parleremo la prossima volta.
Lo faremo prendendo l’argomento un po’ alla lontana, partendo dalla storia dell'incredibile ascesa di William Monahan.
Il nome non ti dice niente?
Non importa.
Per ora ti basti solo sapere che è uno bravo a copiare.
Molto bravo.
Così bravo che per aver copiato gli hanno dato anche un Oscar…

4.6.07

Questo è Cinema!


Storia ridotta all’osso divisa in due atti speculari nelle premesse ma differenti negli esiti: due gruppi di ragazze prese di mira in momenti diversi da un ex stuntman alla guida della sua vettura "a prova di morte".
Dialoghi tutti al femminile infarciti di sesso e parolacce.
Inseguimenti e scontri tra vetture così realistici da farti assaggiare il sapore della polvere.
Da farti annusare l’odore della benzina.
E poi piedi. Un’overdose di piedi femminili.
E tanti culi, neanche fossimo finiti in un film di Tinto Brass.
Colonna sonora perfetta.
Citazioni. Ed auto-citazioni.
Questo è Death Proof, il nuovo film di Quentin Tarantino.

Ma è anche molto altro: è un film di corpi che si muovono, sudano, ammiccano, ballano.
E vengono fatti a pezzi.
Ed in questo è forse il film più “fisico” tra quelli girati finora da Tarantino.

È un film fatto di dualismi.
Di luoghi chiusi (gli interni delle vetture e del bar dove si svolge la parte centrale del film) e di spazi aperti (strade e superstrade).
Di oscurità e luce.

È un film dove i protagonisti sono, almeno per una volta, gli stuntmen, che tanta fortuna hanno portato al cinema a stelle e strisce prima di essere quasi completamente rimpiazzati da pupazzi animati al computer (ed in questo è palese e dichiarata l’ammirazione di Tarantino per un cinema fatto da attori in carne ed ossa che sembra ormai in via d’estinzione…)

È un film divertito e divertente.

È un film che ripropone in maniera forse più cialtrona e bizzarra ma non meno palese uno dei temi chiave della filmografia tarantiniana: quello di una forza femminile capace di tenere testa con astuzia (Jackie Brown) o ferocia (Kill Bill) ad un universo maschile solo apparentemente dominante.

È un film, soprattutto, che rivendica la forza e l’autonomia del cinema quale spettacolo che non può essere surrogato né da forme di narrazione diluite (come i telefilm) né da visioni domestiche che per quanto tecnologicamente sviluppate (DVD, HD DVD e via dicendo…) non saranno mai in grado di sostituire la magia del grande schermo.
Pensate per un momento a quanto il gioco della pellicola sporca, dall’audio graffiato e del bianco e nero non voluto all’inizio della seconda parte perda in un’eventuale visione casalinga su uno schermo tv (anche se a 42 e passa pollici..).

Insomma Death Proof è CINEMA, nel senso più puro del termine.

Con buona pace del moribondo e permaloso cinema italiano.

E dei tanti criticuzzi italici che hanno liquidato questa pellicola come uno scherzo di un autore che non ha più nulla da dire.