8.9.15

Dance is the new Pop.



Per anni mi sono chiesto dove fosse finita la musica pop.
Quella fatta di pochi accordi, semplici ed efficaci. Dalla struttura classica: strofa - ritornello, strofa - ritornello; con al massimo un ponte di mezzo.
Con quel mix difficile da raggiungere di ritmo e melodia.
E, soprattutto, con quella capacità di acchiappare l’orecchio dell’ascoltatore e di non mollarlo più  fino a costringerlo a canticchiare, come un virus. 
Che a dirlo sembra una cosa facile ma trovane canzoni così, fatte come si deve, magari capaci anche di resistere al passaggio del tempo.
Pensa alla musica degli anni '80: all'epoca tanto vituperata, per l’uso di tastiere e sintetizzatori, veri e propri segni distintivi di quegli anni e di quella musica. 
A-Ha. Spandau Ballet. Duran Duran. Ma anche quelli meno famosi di cui, anche se in questo momento sei convinto del contrario, conosci almeno una canzone a memoria: Level 42, Human League, Talk Talk e tanti altri.
Eppure quei pezzi sono ancora lì, impresse nelle nostre orecchie. E nei nostri cuori. Con le radio che non smettono mai di trasmetterli.
Tastiere e sintetizzatori. 
Ritmo e melodia. 
E dentro un’anima melodica, spesso danzante.
Canzoni che, ora lo possiamo dire, ascoltiamo da più di trent’anni anche se nessuno, probabilmente, avrebbe immaginato che un giorno sarebbero diventate dei piccoli classici.
Sì, ma adesso? 
Dove sono le canzoni così, quelle popolari nel senso appena descritto? 
Quelle che ascoltiamo per una stagione, che ci conquistano facilmente, e a cui, magari, guardiamo con sufficienza, convinti, proprio come negli anni ’80, che di esse non rimarrà alcuna traccia? 
Per anni le ho cercate sotto l’etichetta “POP”.
Ma le stavo cercando nel posto sbagliato.
Perché è ai moderni deejay, quelli che spesso diventano molto più famosi dei cantanti indicati sotto la sigla Feat. a cui affidano le tracce vocali, che dovevo guardare.
Sono loro che dovevo ascoltare.
Di esempi ce ne sono tanti.
Prendete un pezzo come Get Lucky dei Daft Punk. Tra trent’anni lo passeranno ancora alla radio? Lo suoneranno ancora alle feste? Io sono convinto di sì. Perché è fatto di quella semplicità che solo le grandi canzoni Pop hanno. 
Perché ha un piede nel passato (l’apporto di Nile Rodgers degli Chic), un altro nel presente (la voce del Re Mida dei “featuring” Pharrell), e lo sguardo dritto nel futuro (il suono (l’equilibrio nel suono tra passato e moderno che solo i Daft Punk potevano dargli).
Certo, forse è un caso eclatante. Non fa testo.
Ma ce ne sono tanti altri.
Di uno ho parlato un po‘ di tempo fa.
Un altro, invece, è un brano di pochi mesi.
Si chiama Firestone e sicuramente l’avrai sentita, anche se magari ne ignori il titolo o il deejay che “la canta” (ma forse è più corretto dire che la suona).
Parte piano. 
Lenta. 
Lentissima.
Con un intro strumentale di più di trenta secondi.
La prima strofa continua, sulla rotta tracciata dall’intro.

“I’m a flame short of fire
I’m the dark in need of light
When we touch you inspire
Feel it changin’ me tonight
So take me up take me higher
There’s a world not far from here
We can dance in desire
Or we can burn in love tonight”

Pensi quasi di esserti sbagliato. Volevi un pezzo ritmato e ti ritrovi per le mani un lento. 
Eppure puoi sentirlo, in sottofondo, che il pezzo sta crescendo. 
Che c’è del fuoco, neanche troppo nascosto, sotto la cenere.
Ed è allora che arriva il ponte.
E  non so tu, ma io poche volte ho sentito un ponte come questo. 
Perché sembra una prosecuzione della prima strofa, ma in realtà ti sta già portando altrove.

“Our hearts are like
Firestones
And when they strike
We feel the love
Sparks will fly
They ignite our bones
And when they strike
We light up the world”


Nel cuore della canzone. 
Perché è più di un ponte.
E’ già parte del ritornello.
E quando pensi che il pezzo stia per aprirsi, che il suono stia completamente per esplodere, succede quello che non ti aspetti.
Il ponte viene ripetuto.

“Our hearts are like
Firestones
And when they strike
We feel the love
Sparks will fly
They ignite our bones
And when they strike
We light up the world”


Ed è una mossa geniale.
Perché prolunga l’attesa per quello che verrà.
Perché rimanda (e non bisogna essere dei fenomeni per ricordarsi di quante volte, nella vita di ognuno di noi, l’attesa, il rimandare, il desiderio di qualcosa ha amplificato il piacere che è arrivato poi). 
Perché ormai sei lì, la melodia ti ha già rapito completamente e adesso può portarti dove vuole.
A quel punto arriva l’esplosione di suoni, quelli più propriamente e strettamente dance. E quando arriva ti è davvero difficile stare fermo, probabilmente anche più di quanto lo fosse per Kevin Kline, nella famosa scena di In & Out in cui provava in tutti i modi a resistere al ritmo di I Will Survive per dimostrare la sua virilità.
Pochi cazzi, questo è un signor pezzo. 
E che lo abbia concepito un deejay (tale Kygo di cui fino a pochi mesi fa confesso che ignoravo l’esistenza) e non un eccellente e famoso songrwriter o una popstar unanimemente riconosciuta tale non ha importanza.
Non ha nessuna importanza.
Perché, dobbiamo prenderne atto, è la musica dance il Pop dei nostri giorni.




P.S. leggo che Kygo ha 24 anni (ne aveva 23, ad esser precisi, quando è stata pubblicata Firestone) e penso che alla sua età, quando lui concepiva una delle canzone meglio strutturate (e più ballate) degli ultimi anni, io trascorrevo le mie giornate in biblioteca, a via Mezzocannone, a preparare la tesi di laurea in Istituzioni di Diritto Romano: se non ho sbagliato tutto poco ci manca.

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