7.9.15

Quello che siamo stati.



Port Mer, Cancale, Francia, agosto 2015.
Cammino sulla sabbia, dove fino a poco fa c’era il mare. Non sembra di camminare sulla sabbia, ma nell'argilla. E’ più come sprofondare, come nelle sabbie mobili. La sensazione non è piacevole.
Ci sono già stato, qui. Da bambino. Più di trenta anni fa.
Quali erano le sensazioni che provavo quando facevo la stessa cosa, ma a quattro anni?
Non posso ricordarlo. E anche se ricordassi la risposta non cambierebbe.
Me ne rendo conto guardando un bambino che cammina, proprio come me, a pochi passi da me. 
Avrà su per giù la stessa età che avevo io quando sono stato qui la prima volta.
Ride. Corre. Agita le braccia. Si diverte.
Come può in questo momento, in questo suo divertirsi scomposto, in questo suo vivere senza condizionamenti, perdersi dietro pensieri stupidi come la sensazione provocata dall’appoggiare i piedi sulla parte di fondale lasciato scoperto dal gioco delle maree? 
Sono domande inutili. Pensieri inutili.
Domande.Pensieri.
Che non hanno alcun senso, almeno a quell’età.
Domande.
Pensieri.
L’abitudine a fare paragoni. 
A cercare le differenze, come in quel giochino della Settimana Enigmistica. 
Proprio come sto facendo adesso.
Tutte queste cose, messe insieme, danno la misura di una distanza. Tra quello che ero e quello che sono.
Tra quello che sono stato e quello che sono. 
E anche se volessi provare a ricominciare a ragionare così – e mi rendo conto, mentre lo scrivo, che il verbo “ragionare” è il più sbagliato possibile.
Anche se volessi provare a ricominciare a vivere così, non potrei.
Perché c’è tutta quella distanza di mezzo, che non si può ignorare.
Perché cresciamo, cambiamo.
Tante cose finiscono. Altre iniziano.
Molte, più semplicemente, cambiano: si trasformano.
E allora capisco che è inevitabile: quello che siamo stati non possiamo più essere.

Ma, forse, non è proprio così.
O, almeno, non esattamente così. Non solo così.
Perché forse non possiamo tornare ad essere “quello che siamo stati”, non del tutto almeno. Perché dobbiamo fare i conti con quello che siamo. Qui. Ora. Adesso.
Ma quello che siamo stati è ancora dentro di noi, da qualche parte, magari nascosto in qualche luogo oscuro ed inaccessibile, di cui abbiamo perso le coordinate.
Perché il nostro presente non può essere uguale al nostro passato, ma lo contiene: non ne può fare a meno.
Perché il passato non è affatto una terra straniera, ma il luogo a noi più familiare.
Quello in cui, volenti o nolenti, ritorniamo più spesso. 
A rifugiarci.
A nasconderci.
Molte volte a perderci.
Altre a ritrovarci.


Nessun commento: