La sera prima l'Italia ha perso la semifinale dei mondiali contro l'Argentina ed io ho dormito malissimo.
Le immagini dei rigori parati da Goycochea non mi hanno dato tregua per tutta la notte costringendomi a confrontarmi con l'abisso che separa i sogni dalla realtà.
Anche se non ancora in modo del tutto consapevole sfioro l'idea che domandarmi "cosa sarebbe successo se" sia la più sbagliata delle domande possibili.
La più naturale, forse. Ma anche la più inutile.
Sicuramente la più dolorosa.
Nel saltare da un cartone animato a un telefilm finisco col guardare il servizio di un telegiornale sull'eliminazione degli azzurri dal Campionato del Mondo che erano destinati a vincere.
Non ricordo se fosse il TG1 o il TG2.
Ma ricordo benissimo le parole e la melodia della canzone che faceva da sottofondo al servizio.
Che assocerò per sempre a quel momento, come accade spesso con le canzoni, capaci di attaccarsi ad alcuni momenti della nostra vita e di farli riaffiorare in superficie dagli abissi della memoria ad ogni ascolto sotto forma di ricordi.
"Forse perché ti credevo felice così
proprio così fra le mie braccia
forse perché ci bastava arrivare fin qui
come onde di notte sulla spiaggia"
Da allora ne è passato di tempo.
Ho imparato a vivere con più distacco le sconfitte, sportive e non solo.
Ché il calcio, in fondo, come tutti gli sport, non è altro che una metafora della vita.
Qualche volta si vince, altre si perde. Più spesso si pareggia.
E "Bella d'estate" continua ad essere per me una delle canzoni più belle della storia della musica leggera italiana.
Ed una delle più malinconiche.
Sarà per la melodia.
Per la voce sottile di chi la canta.
O perché descrive una situazione che tutti almeno una volta nella vita abbiamo vissuto.
Rimangiarsi quello che si è detto l'altro ieri, a volte addirittura ieri.
Troppo facile svegliarsi all'improvviso, come nel pieno della notte, e gridare che ci eravamo sbagliati di brutto. Che altro che sogno.
Era tutto un fottuto incubo.
Troppo facile scoprire che la persona che fino alla notte scorsa ci dormiva addosso era, come in quel film con Julia Roberts di un bel po' di anni fa, niente di meno che un nemico. Anzi, di più, il nostro peggior nemico.
Troppo facile puntare l'indice, come un Pubblico Ministero nel pieno di una requisitoria, e additare l'altro di tutte le nefandezze possibili e immaginabili.
Soprattutto quando con quella persona, fino a qualche giorno prima, magari soltanto fino a poche ore prima, dividevamo ore, minuti, secondi.
Dolori e momenti di piacere. Pensieri e sogni.
Troppo facile convincersi che così, all'improvviso, quella persona che credevamo dolce, speciale, unica, si sia dileguata, lasciando spazio ad una creatura cattiva, mostruosa, orribile, ripugnante.
Disgustosa come i bozzoli in cui si trasforma Gizmo quando qualcuno gli da del cibo dopo la mezzanotte.
Troppo semplice accettare l'idea che, quando l'amore finisce, non possa esserci spazio per nient'altro che rancore, odio, spirito di vendetta, desiderio di rivalsa.
Che tutto quello che è stato e siamo stati debba sparire.
Come se qualcuno, di nascosto, magari mentre dormivamo, ci abbia iniettato una pozione per endovena. Trasformando quelli che fino ad un attimo prima erano degli innocui dottor Jekyll in altrettanti Mister Hyde.
Lo sapevo che, dopo averci illuso che Facebook fosse una sorta di almanacco dei giorni perduti in grado di farci ritrovare le persone che credevamo smarrite per sempre, salvo poi trasformarlo, giorno dopo giorno, inserzione dopo inserzione, nel più grande centro commerciale tascabile del mondo, l'avresti combinata grossa anche con WhatsApp.
Lo sapevo!
Ma non credevo saresti arrivato a tanto.
Al punto da lasciarci tutti soli con le nostre certezze.
Sì, perché con la doppia spunta blu che prova l'avvenuta lettura del messaggio inviato non hai solo realizzato l'ennesima violazione della nostra privacy, - concetto decisamente sopravvalutato nell'epoca dei social network, che ha rivelato la nostra vera natura di voyeuristi ed esibizionisti al tempo stesso.
No, con la doppia spunta blu hai fatto di peggio: ci hai tolto il dubbio.
E togliendoci il dubbio c'hai privato dei sogni.
Della possibilità di sperare.
Di crogiolarci nell'incertezza:
- allora?
- Lo avrà letto?
- Perché non mi risponde?
- Sarà impegnata.
- Ah, già mi pare che a quest'ora è in palestra.
- Anzi, no. Avrà il cellulare lontano. Silenzioso. Senza vibrazione. Spento. Con la batteria staccata come gli infiltrati nei film polizieschi.
E tutte quelle paranoie che chiunque abbia perso almeno una volta nella vita la testa per qualcuno può capire.
C'hai tolto la possibilità di appigliarci a tutti i segnali più equivoci possibili, trasformarli in solidi punti di appoggio dai quali prendere la rincorsa e, armati di tutta l'incoscienza di cui siamo capaci, spiccare il balzo verso la più prevedibile delle delusioni.
Già non erano tempi facili.
Da qualche giorno a questa parte lo sono ancora di meno per i sognatori.
Ci avete fatto caso? Quando due persone si lasciano le foto sul profilo Facebook che li ritraevano insieme, come per magia, spariscono.
Interi album di viaggi e vacanze vengono cestinati senza pietà.
Foto di pranzi, cene, aperitivi, abbracci, baci, coppie di piedi, dita che si intrecciano svaniscono nel nulla.
Addirittura alcune immagini vengono ingrandite, tagliate e modificate fino a rimuovere quelli che fino a poco tempo prima ne erano sorridenti protagonisti. E di cui, quando l'operazione di ritocco delle foto non è proprio perfetta, se tutto va bene, rimane solo qualche pezzo di arto a ricordarne l'esistenza.
Come i fratelli di Marty McFly, che scompaiono un pezzo dopo l'altro dalla foto che ha in tasca mentre suona Johnny B Goode alla festa in cui i suoi futuri genitori si baciano per la prima volta.
In realtà, non è che si tratti di un fenomeno poi così nuovo: in fondo, la prima (o al massimo seconda o terza) cosa che uno fa dopo essersi lasciato è proprio cercare di eliminare tutto quello che in qualche modo ci ricorda la persona con cui stavamo, in primis le foto.
Solo che con i social network di mezzo le cose si sono complicate un po'.
Perché possiamo illuderci di cancellare fotogrammi passati divenuti all'improvviso così ingombranti ed indesiderati, stando ben attenti a rimuoverli dal nostro profilo in maniera chirurgica, come in quel gioco di tanti anni fa quando dovevamo estrarre organi da un malcapitato paziente di plastica senza far scattare l'allarme.
Ma non possiamo andare in giro a ripulire anche le foto disseminate sui profili altrui.
Quelle scattate dai parenti, dagli amici, dagli amici degli amici, in occasioni speciali, o semplicemente durante un giorno qualunque.
Ed ecco, quindi, che, quando meno te lo aspetti, riaffiorano le immagini.
E con esse i ricordi.
Si insinuano, come uno di quei bug fastidiosi capaci di bloccare una partita all'Amiga 500 e di farci imprecare davanti ad uno schermo.
Sembra quasi che siano lì a provocarci.
E a ricordarci che, per quanti sforzi facciamo, che lo vogliamo oppure no, di quello che è stato, da qualche parte, fuori e dentro di noi, rimarrà sempre una traccia.
Come si scrive la canzone pop
perfetta oggi, nell'ottobre 2014?
Così:
Regola n. 1: la canzone pop perfetta è quella che riesce ad essere al passo coi tempi.
Regola n. 2: la
canzone pop perfetta è quella che riesce ad essere al passo coi tempi
senza dimenticare quello che è c’è
stato fino all’altro ieri e lasciando intravedere quello che verrà.
In questo senso il pezzo del famoso dj francese è perfetto: la base, suonata inizialmente
da un pianoforte che presto lascia il passo a sintetizzatori e chitarre
distorte, ha un ritmo sincopato, perfetto per descrivere la frenesia di un’epoca che ha
fatto della velocità il suo totem indiscusso.
Ma questo solo se ci si ferma ad un primo ascolto superficiale
e, per l'appunto, veloce.
Perché la linea melodica di fondo fatta
di sintetizzatori evoca reminiscenze passate: i mai sufficientemente rimpianti
anni '80.
Ed innesca un cortocircuito con l'immaginario cinematografico
degli ultimi anni, dove sempre più
spesso sono questo tipo di suoni a farla da padroni.
Pensate alla canzone sui titoli di testa di Drive, subito dopo
la rapina iniziale tutta ripresa in soggettiva nella prospettiva del guidatore,
con la macchina da presta che stringe sulle mani di Ryan Gosling salde al
volante.
E non solo: c'è, nella linea di chitarra che sostiene l'intera
canzone del dj mangiarane, che si ripete come in un loop infinito, anche un
richiamo al suono di altri dj che hanno, con la loro musica, rotto ogni
barriera tra musica dance e pop, come i Daft Punk.
E poi, beh poi, c'è tutta la contemporaneità che
una canzone pop degna di questo nome deve avere: il ritornello fatto di poche
parole efficaci ripetute in maniera quasi ossessiva ("I don't know where the lights are taking us/But something in the
night is dangerous/And nothing's holding back the two of us/Baby this is
getting serious/Oh oh oh/Dangerous/Oh oh oh").
Il cantato al confine col rappato.
La voce di Sam Martin, facilmente riconoscibile, eppure non catalogabile
in maniera netta né nella
musica pop, né in quella
dance.
Probabilmente perché
riconducibile ad un altro tormentone degli ultimi mesi perfetto ibrido dei due generi.
Ammesso che abbia ancora un senso parlare di pop e dance come di
due generi diversi.
Perché, se c'è una
cosa che Dangerous dimostra, o meglio conferma, è
che se vogliamo ascoltare della buona musica pop, o meglio, della grande
musica pop, non dobbiamo più guardare
alle popstar e alle rockstar tradizionalmente intese.
Ma ai deejay.
Specie da quando il brit-rock è
sparito, definitivamente affossato dalle risse tra i fratello Gallagher
e dalle evoluzioni (?) dei Radiohead e del Damon Albarn solista.
Specie da quando chi provava a fare del buon pop con un minimo
di personalità (i primi Maroon 5 su tutti) ha scelto di abbandonare la strada
intrapresa per consacrarsi a vocoder e sintetizzatori (non a caso due marchi di
fabbrica della musica dance degli ultimi quindici-vent'anni).
E allora non è un
caso Chris Martin, uno che ha perso la moglie ma non la capacità di
scrivere canzoni pop, per arrivare in cima alle classifiche con il cupo e
malinconico Ghost Stories si sia rivolto ad Avicii per portare a casa il più classico degli specchietti perle allodole.
E che gli U2, pur essendosi intrufolati negli IPhone di mezzo
mondo come un Trojan qualsiasi, non riescano a sfondare davvero pagando
l'assenza di un tormentone in grado di trascinare il loro ultimo cd.
Forse proprio perché, persi nel loro pellegrinaggio
dai produttori più in voga
del momento (Ryan Tedder e Paul Epworth), si sono dimenticati di bussare alla
porta di un deejay.
Questa è una storia triste e disperata. Senza lieto fine, né redenzione.
Questa è la storia di un uomo che ha toccato il cielo con un dito e, senza neanche avere il tempo di accorgersene, si è ritrovato in un mare di merda.
Come accade quasi sempre in questi casi, c'è di mezzo una donna.
Questa è la storia della Triste Parabola di Robin Thicke.
Ma procediamo con ordine.
- Il video di Burred Lines: tre simpatici cialtroni se la ridono circondati da donnine poco vestite. -
Ve lo ricordate?
Un anno fa con questo tormentone ha contribuito ad aumentare il già elevato tasso di stupidità dell'umanità costringendoci a ballare come idioti con le braccia alzate mentre tutti insieme simulavamo una risata che sembrava la brutta copia di quella di Eddie Murphy doppiato dal mai troppo rimpianto Tonino Accolla.
E così, grazie anche a quel video cialtrone, oltre che allo zampino del solito Pharrell, il buon Robin Thicke si è ritrovato di colpo ricco e famoso.
Le conseguenze di tutto ciò erano prevedibili: preso dall'euforia, il buon Robin ha iniziato ad infilare il suo microfono dappertutto a duettare con qualunque essere di sesso femminile. Arrivando addirittura a sdoganare quello che fino a poco tempo prima era solo un tipico gesto da uomo ubriaco ed "ingrifeto come un canguro eschimese" in discoteca e trasformandolo in una moda diffusa, il twerking.
- Che bel vestito che hai, Robin! -
Tutto normale, direte voi.
Certamente. Solo che alla moglie questa storia non è andata giù.
- Ciao, sono Paula Patton, la (ex) moglie di Robin Thicke -
E così ha fatto quello che ogni donna avrebbe fatto al suo posto: ha chiuso un occhio.
Ha chiuso l'altro.
E, poi, gli ha dato un calcio in culo.
E a quel punto? Cosa ha fatto il buon Robin? C'ha messo una pietra sopra? Ha utilizzato la famigerata tecnica del chiodo schiaccia chiodo?
No, il pover uomo si è procurato l'ultima edizione di"Come non si riconquista una donna", ed ha seguito alla lettera le indicazioni contenute a pagina 275, sotto la lettera S di SBAGLIOPIUGRANDE.
Ha tentato di riconquistarla.
Ma non dedicandole, che so, una poesia o due righe su Facebook, inondandola di migliaia di telefonate ed sms tipo stalker, oppure scrivendole una lettera strappalacrime.
No, le ha dedicato un intero album a partire dal titolo.
- Sguardo basso e testa china, ora sì che riconquisto lei e le charts. -
Risultato?
- La stampa si accanisce ma lui ostenta sicurezza. -
Il più grosso flop discografico degli ultimi anni.
Roba che al confronto, Zucchero Filato Nero, il cd solista di Mauro Repetto, è stato un successo.
Ma almeno la moglie l'ha riconquistata? - Vi starete domandando.
Macché, pare che non gli abbia neanche fatto una telefonata per dirgli che aveva comprato una copia del cd per usarlo come limetta per le unghie.
Insomma, una gran brutta storia.
Comunque sappi, caro Robin, che la tua fine miserabile non è stata inutile.
Perché la tua triste parabola serve a ricordarci una di quelle tre o quattro GRANDI VERITÀ sulle quali è fondata l'esistenza: quando una donna ti molla, è finita. Poche storie. Puoi solo rimboccarti le maniche e voltare pagina (o almeno provarci).
Perché tutto quello che proverai a fare per riconquistarla sarà solo una dimostrazione pratica, anche piuttosto patetica a dire il vero, di come sia difficile rimediare ai propri errori e, soprattutto, di come sia impossibile far tornare tutto come prima.
Si, ma in tutto questo, il povero Robin Thicke che farà adesso?
Beh, speriamo che capisca che non è il caso di continuare su questo strada se non vuole ambire al titolo zimbello della galassia.
Che intraprenda nuove strade e, magari, torni a fare un po' il matto come tanti anni fa, come nel video di quel pezzo geniale in cui, sulle note di un campionamento della la Quinta Sinfonia di Beethoven, se ne andava in giro per le strade di New York vestito come me quando scendo la sera a gettare l'immondizia.
- Verso l'infinito e oltre! -
Non voltarti indietro e vai, Robin!
Vai.
Ché qui, tra una risata e l'altra, facciamo tutti il tifo per te.
Perché, in fondo, non c'è storia più avvincente di quella di un uomo che, dopo aver toccato il fondo (e magari dopo aver anche scavato un bel po' come hai fatto tu), riesce a rialzarsi in piedi.
Bonus track: Robin Thicke quando si faceva chiamare semplicemente Thicke e cantava canzoni decenti.
So solo che, ad un certo punto, da qualche parte, abbiamo cominciato a fare tutto da soli.
Abbiamo iniziato a pensare di non avere più bisogno l’uno dell’altro.
Senza saperlo, probabilmente senza neanche rendercene conto, abbiamo iniziato a scrivere la parola fine.
Perché abbiamo perso di vista il quadro generale, il “noi” è diventato sempre più piccolo, ristretto, fino a ridursi ad un misero “io”.
Certo, le scuse sono tante: i ritmi frenetici imposti dalla vita, i problemi quotidiani che non mollano mai la presa, il rifiuto, a volte inconsapevole, della semplicità.
Ma sono scuse, per l'appunto.
La verità è che siamo diventati talmente individualisti da illuderci di poter fare tutto – o quasi tutto - da soli.
Al punto da arrivare a smettere di chiedere aiuto anche per i gesti più semplici, elementari, come farci scattare una foto.
Prima li chiamavamo autoscatti. Adesso li chiamiamo “selfie”.
Come accade sempre più spesso noi, che abbiamo i migliori sarti al mondo, usiamo una stoffa inglese per vestire un gesto banale.
Come accade sempre più spesso utilizziamo un termine inglese perché fa figo, ci fa sentire giovani e forti.
Come accade sempre più spesso utilizziamo un termine inglese perché, quando qualcuno ce ne chiede il significato, possiamo dare la nostra, di traduzione.
- Gep, tu che sei un uomo di mondo, ma ch' so' 'sti selfi?
- Niente Peppi', sono banalissimi autoscatti. Solo che mentre te li fai devi fare pure una faccia di cazzo.
Ma le cose non stanno proprio così.
Perché dietro quel gesto semplice, apparentemente spensierato, sicuramente narcisistico, si nasconde una convinzione malsana che, giorno dopo giorno, autoscatto dopo autoscatto, ci sta prendendo tutti.
Ci sta fregando tutti.
Quella di poter fare tutto da soli.
Di non dover chiedere più aiuto. A nessuno e per niente.
E così, tutti presi dai nostri autoscatti, intenti a fissare con espressione ebete i display dei nostri cellulari, ci siamo ritrovati sull’orlo del baratro.
Forse perché eravamo troppo presi a pensare alle smorfie da fare.
E così, tutti presi dai nostri autoscatti, intenti a fissare con espressione ebete i display dei nostri cellulari, ci siamo ritrovati sull’orlo del baratro. Ma sempre sorridenti.
Forse perché non c’era nessuno, dall’altro lato, a tenere la macchina fotografica e a dirci di stare attenti, di non indietreggiare, che ci saremmo fatti male.
O, se c’era, non ci siamo fermati a sentirlo. Ché, tanto, c’è pure un tasto, sul display, lo sfiori e puoi anche guardarti, mentre sei alle prese col tuo selfie del giorno.
E così, tutti presi dai nostri autoscatti, intenti a fissare con espressione ebete i display dei nostri cellulari, ci siamo ritrovati sull’orlo del baratro.
Felici e sorridenti.
Perché non abbiamo più bisogno di chiedere una mano, noi.
Per niente. E a nessuno.
Neanche per farci scattare una foto.
Neanche adesso, che abbiamo un display sfavillante di colori davanti a noi e il buio più nero alle nostre spalle.
Anzi, a pensarci bene, non dobbiamo nemmeno chiamare qualcuno per farci dare una spinta.
Siamo benissimo in grado di farlo da soli.
P.S. È di pochi giorni fa la notizia che una ragazza è morta dopo essere caduta mentre si stava facendo un selfie. Il nucleo centrale di questo pezzo è stato scritto a fine marzo. È proprio vero che a volte la realtà riesce ad essere peggiore della fantasia.
Non ci credete? Provate ad ascoltare una a caso delle nove tracce che compongono l'ultimo cd dei Coldplay (ok, A Sky Full Of Stars non fa testo. O forse sì. In fondo, i momenti di euforia sguaiata sono tipici dei depressi).
Dicevo, è depresso perché si sta separando dalla moglie (Gwineth Paltrow), ma, a quanto pare, non riesce a separarsi dal suo fantasma, tanto da intitolare il nuovo disco della band di cui è leader "Ghost Stories".
Depresso, al punto tale da andarsene in giro vestito come Lino Banfi in Grandi Magazzini.
Chris Martin
Lino Banfi in Grandi Magazzini
E non ci vuole un genio per comprendere che i fantasmi di cui parlano (quasi) tutti i testi (tristissimi) dell'album sono in gran parte i ricordi lasciati dall'abbandono della persona amata.
Ma, siccome Chris è depresso, ma è anche ricco sfondato, quando sta male lui non chiama, come tutti noi, la mamma, o, chessó, Mariuccia, la nostra amica del cuore.
Mariuccia in una delle sue foto migliori
No, lui è un depresso figo che vive tra Los Angeles e Londra e di mestiere fa la rockstar e quindi, quando sta male, per consolarsi, chiama Rihanna.
Rihanna
- Pronto Ri', ciao sono Chris
- Ah, ciao Chris!
- Sai, Ri'... Sono un po giù per via del fatto che... mi sono lasciato con Gwineth, e... pensavo che... sai... magari... io e te...
- Chris, vuoi scopare?
Ecco. Più o meno le cose sono andate così.
Ma la verità è che Chris Martin, anche se tra un pianto e l'altro si schiaccia Rihanna, è depresso ed ha ragione ad esserlo.
Perché, quando perdi la persona che ami, quello che ti aspetta dopo, almeno per un bel po' di tempo, è solo sofferenza, sia pure in diverse gradazioni, sia pure intervallata da fugaci momenti di benessere.
E insomma, la triste storia del giovane Chris serve a ricordarci, se ce ne fosse ancora bisogno, che i soldi, la fama e il successo non contano poi granché di fronte alle COSEIMPORTANTIDELLAVITA, dinanzi alle quali siamo tutti uguali, come ci ricordava il grande Totò nella Livella.
Ché quando arriva la botta, arriva per tutti, che tu ti chiami Chris Martin o Enzo Rossi.
E non c'è Rihanna che possa consolarti.
Forse... Bonus Track: prove generali di flirt tra i due sul set della canzone più criticata della storia dei Coldplay
Bonus Track 2: la canzone più bella e sottovalutata di Rihanna