18.10.19

Si riparano ricordi



"Si riparano ricordi" dice il cartello in vetrina.
Come se un ricordo fosse una lavastoviglie che non pulisce, una lavatrice che non risciacqua, un ferro da stiro che non stira.
Insomma, un elettrodomestico che, di punto in bianco, ha smesso di funzionare e che puoi portare ad aggiustare.
Sì, ma ammesso che sia così - anche ammesso che sia così - come si riparano i ricordi?
E, prima ancora, quand'è che un ricordo è guasto?
Quando è sfumato e si riaffaccia nella nostra memoria solo a sprazzi? Come brandelli di un quadro strappato, di cui intuiamo la bellezza pur non riuscendone a vedere l’insieme?
Oppure quando il ricordo di un momento particolarmente felice è incompleto?
O ancora, quando non lo riusciamo a collocare con precsione nel tempo e nello spazio, al punto da cominciare anche a dubitare, che si tratti di un ricordo?
Perché, ci siamo cascati tutti, almeno una volta, la memoria è spesso un funambolo, che cammina in difficile equilibrio lungo quella linea sottile che separa la memoria dal sogno.
E se, al contrario, un ricordo fosse rotto perché troppo preciso e vivido in ogni suo dettaglio? Nei colori, nei suoni e persino negli odori.
Al punto da farci male. Perché quei momenti che evoca sono diventati un giardino segreto, nel quale vorremmo tornare ancora a rifugiarci.
Ma che siamo consapevoli di non poter più rivivere.
Perché siamo cambiati noi.
Perché è cambiato chi divideva con noi quegli attimi.
O perché è andato via, lasciandoci con un buco che stupidamente proviamo a riempire, quando l’unica cosa da fare sarebbe lasciarlo intatto
tant’è perfetto
quello spazio
nella sua forma circolare
nel suo essere ferita
impossibile da rimarginare.
E allora, tornando alla domanda iniziale, come si riparano i ricordi?
Aggiungendo i dettagli mancanti, come tessere di un puzzle?
Mettendo a fuoco ogni sfumatura?
O riducendo, sottraendo, cancellando, fino a non lasciare più nulla, di quel ricordo?
O, ancora, facendo entrambe le cose?
Perché un ricordo, forse,
per essere davvero riparato
ha bisogno di brillare
(anche solo) un’ultima volta,
prima di essere dimenticato.

28.8.17

Super Santos VS. Super Tele


Super Santos: colore arancione inconfondibile, intersezioni nere leggermente scavate nella plastica. E poi il peso, quello giusto.
Calciare un Super Santos: questione di forza e precisione. Tiri, la palla va dritta, al massimo una leggera deviazione, se il vento spinge forte. 
Super Tele: nessun colore specifico ad identificarlo, leggero. Troppo.
Calciare un Super Tele: questione di culo. Prendi la mira, fai la rincorsa, tiri un calcio e la palla fa quello che cazzo gli pare. 
A volte la vita è come un giro di campo con un Super Santos tra i piedi: corri, mantieni il controllo, con un minimo di destrezza salti l’avversario, calci forte e preciso e la palla, anche se sbanda un po', finisce proprio dove la volevi mettere.
Più spesso è molto simile ad una serie di calci di rigore tirati con un Super Tele: ti prepari, ce la metti tutta, ma il pallone, che tu lo voglia o meno, prende traiettorie tutte sue.
Se ti va male finisce in culoalmondo.
Che ti viene difficile anche ricordare dov’è che volevi piazzarla.
Che diventa difficile perfino recuperarla.
Però se ti va bene la palla, dopo un giro strano e tortuoso, che nessuna legge della fisica sarebbe in grado di spiegare, finisce in rete, lì dove nessuno può arrivarci e tu, come in una giocata di Oliver Hutton che Ed Warner non riesce a neutralizzare, realizzi un gol spettacolare.    

7.9.16

L'olocausto dei piccoli sogni.


Ogni giorno, da qualche parte nel mondo, milioni di sogni vengono uccisi.
E ad ucciderli, il più delle volte senza neanche rendercene conto, siamo noi.
A pensarci bene, basta davvero poco per farlo.
Basta che la persona con la quale viviamo, o semplicemente le persona con cui ci interfacciamo durante la giornata, ripongano in noi una speranza specifica, l'aspettativa di un determinato comportamento. E non parlo dell'aspettativa di chissà quale azione miracolosa, o di quale gesto memorabile. Si può trattare anche di gesti stupidi, elementari. "Vorrei tanto che oggi la mia compagna mi svegliasse portandomi il caffè al letto".
"Spero che mio figlio mi dedichi cinque minuti del suo prezioso tempo".
"Sarebbe bello se mio marito, al ritorno dal lavoro, mi abbracciasse e mi stringesse forte, come faceva all'inizio, quando ci amavamo ancora".
Nulla di sensazionale. Pensieri naturali.
Umani.
Che generano aspettative. Speranze. Desideri.
Sogni.
Magari piccoli. E fragili.
Così fragili che basta davvero poco a spazzarli via.

"Che hai? Perché quella faccia?"
"Non è niente, è soltanto che stamattina ho fatto più fatica del solito ad alzarmi (e speravo mi portassi il caffè al letto, ma non è andata così. Stupido io ad aspettarmi qualcosa di diverso dal solito)".

"Quindi devi uscire di nuovo?"
"Sì, papà. Ho una festa. Lo avevi dimenticato?"
"Sì, probabilmente sì (e invece no. Non ho dimenticato proprio un bel niente. E' che non parli mai con me, forse lo avrai detto a tua madre. Ma non fa niente. Magari domani sera non avrai impegno. E parleremo. E ti racconterò dell'idea che mi è venuta: andare insieme allo stadio, come quando avevi otto anni e ci andavamo insieme ogni domenica)".

"Che hai?"
"Giornata di merda al lavoro. Sono stanco. Ho bisogno di farmi una doccia, e di stendermi un po'.
"Dai, riposati".
"Dovevi dirmi qualcosa?"
"No, nulla. Nulla di importante (e quando mai lo è, lo sono, importante, io, rispetto a te, rispetto al lavoro, rispetto a tutto il resto. Però è stato bello sognare, anche solo per un attimo, che tornassi dal lavoro diverso, che mi abbracciassi, che mi stringessi, che mi facessi capire quanto sono ancora importante per te. O forse no. Forse non lo è stato affatto, bello. Perché adesso mi sento stupida, cretina, ad averlo sperato. Vuota. Delusa. E tutto per aver  immaginato qualcosa che non è successo)".

Insomma, basta poco.
Davvero poco. Per uccidere un sogno.
Per ferire, senza neanche accorgercene, chi ci sta a fianco.
Per aprire una piccola crepa che, giorno dopo giorno, delusione dopo delusione, disillusione dopo disillusione, è destinata ad allargarsi sempre di più.
Fino a diventare una voragine.
Una voragine larga quanto lo spazio che separa i sogni dalla realtà.

29.8.16

L'arrivo del tormentone triste e la fine dell'estate


- A che pensi?
- A niente.
- Non è vero. Sei pensieroso. E' successo qualcosa.
- E' l'estate. Sta finendo.
Ci sono cose che non cambiano.
Capaci di farti lo stesso effetto sempre.
Che tu abbia dieci, quindici, venti o trentotto anni, come nel mio caso.
L’avvicinarsi della fine dell’estate è una di quelle.
Da ragazzino stavi male, l'estate che finiva era poco meno di un apocalisse: i compiti per le vacanze, che non avevi toccato per tre mesi, preferendogli il Texone e gli speciali estivi della Bonelli. Dover rimettere la sveglia, la mattina presto. L'inizio della scuola.
Da studente universitario non cambiava granché: gli esami da preparare o da finire di preparare. Le corse contro il tempo per colmare – o almeno provare a colmare – lacune di preparazione, grandi come un buco di sceneggiatura di un qualunque blockbuster americano uscito negli ultimi dieci anni. E poi l'elenco dei buoni propositi, stilato, stampato e messo in bella vista, prima di finire accartocciato ad affollare il cestino dei sogni morti prematuramente.
Poi cresci (si fa per dire), trovi l'amore e anche una cosa che ad averla in Italia hai quasi vergogna di nominare: il lavoro. Qualcosa di più simile al primo premio di una lotteria che ad un diritto sancito dall'articolo uno della Costituzione.
E pensi che tutto è cambiato e che, in fondo, della fine dell'estate te ne fotte. E te ne fotterà.
Invece non è così.
Eppure la scuola è finita.
Gli esami anche, con buona pace di Eduardo.
E allora perché questa malinconia?
Perché questa sensazione di qualcosa che sfugge e che, se tutto va bene, non ritroverai prima di un anno?
Perché, inutile girarci intorno, l'estate, quando è davvero estate, è la stagione dei sogni. Della libertà.
Della spensieratezza.
E più ti rilassi, più riesci a staccare dai problemi quotidiani, dal lavoro, e da tutto quanto, più l'avvicinarsi del ritorno alla quotidianità ti fa paura, ti mette ansia.
Ci sono cose che non cambiano.
E che tu abbia dieci, quindici, venti o trentotto anni, ti fanno lo stesso effetto.
Ti fanno lo stesso male.
Come l’arrivo di un tormentone triste che ti ricorda che l’estate sta finendo.
E che alla porta sta bussando la realtà

29.9.15

Uno spot, un colpo (al cuore).



Si sgretola una videocassetta.


Si sbriciola un walkman.


L’immagine è potente. Evoca il Nolan di Inception, con le sue città sogno/incubo che si smontano, si rimontano, si capovolgono e, appunto, si disgregano.
Ed altrettanto efficace è il messaggio che si intende far passare: gli oggetti a cui ci leghiamo, da cui spesso finiamo per dipendere, anche se capaci di segnare un’epoca, sono destinati a sparire.
Tutti.
Per lasciare spazio a qualcosa di più pratico, funzionale, efficiente. 
Moderno.
In fondo, non c’è immagine migliore per dimostrare quanto il trascorrere del tempo possa essere impietoso nei confronti della tecnologia, catapultando nell’oblio oggetti che fino a un attimo prima ci apparivano perfetti. E destinati all’eternità. 
E, con essi, le epoche caratterizzate da quegli oggetti.
Solo che, in questo meccanismo pubblicitario apparentemente perfetto, c’è un problema.
Un’imperfezione.
Qualcosa che provoca un sussulto, dentro di noi.
Perché con quel walkman che si disgrega davanti ai nostri occhi, ci siamo nati: attaccato alla cinta, con dentro musicassette riempite a furia di premere il tasto play e rec contemporaneamente, mentre incrociavamo le dita nella speranza che il deejay di turno non rovinasse la canzone intervenendo con il suo vocione prima della sua fine.
Perché siamo cresciuti col videoregistratore, programmato per registrare gli horror a notte fonda. Piccoli montatori in erba allenati ad individuare l’ultimo spot di uno stacco pubblicitario prima di poter riprendere la registrazione. Ed avere così una riproduzione senza pubblicità, senza tagli, più vicina possibile a quella originale.
C’era anche chi, come me, addirittura comprava i contenitori per le VHS, quelli neri, per farci la copertina del film, usando foto e ritagli di giornale, informazioni su cast e durata prese da TV Sorrisi e Canzoni e i cartoncini del paginone centrale di CIAK per la copertina.
Eh, sì. Stavolta i maghi della pubblicità sono stati così bravi da averla fatta grossa.
Perché quegli oggetti che hanno deciso di mettere in primo piano, mentre si sgretolano sotto i nostri occhi, non sono oggetti, ma molto di più.
Sono pezzi di vita.
E se il messaggio che volevano trasmetterci era “guardate avanti, sostituite quello che avete con qualcosa di nuovo”, allora hanno sbagliato di brutto. 
Perché il risultato raggiunto è esattamente opposto.
Perché voltarci indietro è un gesto molto più naturale del guardare avanti.
Perché nessun oggetto potrà sostituire nel nostro cuore quelli con cui siamo nati.

Quelli con cui siamo cresciuti.

8.9.15

Dance is the new Pop.



Per anni mi sono chiesto dove fosse finita la musica pop.
Quella fatta di pochi accordi, semplici ed efficaci. Dalla struttura classica: strofa - ritornello, strofa - ritornello; con al massimo un ponte di mezzo.
Con quel mix difficile da raggiungere di ritmo e melodia.
E, soprattutto, con quella capacità di acchiappare l’orecchio dell’ascoltatore e di non mollarlo più  fino a costringerlo a canticchiare, come un virus. 
Che a dirlo sembra una cosa facile ma trovane canzoni così, fatte come si deve, magari capaci anche di resistere al passaggio del tempo.
Pensa alla musica degli anni '80: all'epoca tanto vituperata, per l’uso di tastiere e sintetizzatori, veri e propri segni distintivi di quegli anni e di quella musica. 
A-Ha. Spandau Ballet. Duran Duran. Ma anche quelli meno famosi di cui, anche se in questo momento sei convinto del contrario, conosci almeno una canzone a memoria: Level 42, Human League, Talk Talk e tanti altri.
Eppure quei pezzi sono ancora lì, impresse nelle nostre orecchie. E nei nostri cuori. Con le radio che non smettono mai di trasmetterli.
Tastiere e sintetizzatori. 
Ritmo e melodia. 
E dentro un’anima melodica, spesso danzante.
Canzoni che, ora lo possiamo dire, ascoltiamo da più di trent’anni anche se nessuno, probabilmente, avrebbe immaginato che un giorno sarebbero diventate dei piccoli classici.
Sì, ma adesso? 
Dove sono le canzoni così, quelle popolari nel senso appena descritto? 
Quelle che ascoltiamo per una stagione, che ci conquistano facilmente, e a cui, magari, guardiamo con sufficienza, convinti, proprio come negli anni ’80, che di esse non rimarrà alcuna traccia? 
Per anni le ho cercate sotto l’etichetta “POP”.
Ma le stavo cercando nel posto sbagliato.
Perché è ai moderni deejay, quelli che spesso diventano molto più famosi dei cantanti indicati sotto la sigla Feat. a cui affidano le tracce vocali, che dovevo guardare.
Sono loro che dovevo ascoltare.
Di esempi ce ne sono tanti.
Prendete un pezzo come Get Lucky dei Daft Punk. Tra trent’anni lo passeranno ancora alla radio? Lo suoneranno ancora alle feste? Io sono convinto di sì. Perché è fatto di quella semplicità che solo le grandi canzoni Pop hanno. 
Perché ha un piede nel passato (l’apporto di Nile Rodgers degli Chic), un altro nel presente (la voce del Re Mida dei “featuring” Pharrell), e lo sguardo dritto nel futuro (il suono (l’equilibrio nel suono tra passato e moderno che solo i Daft Punk potevano dargli).
Certo, forse è un caso eclatante. Non fa testo.
Ma ce ne sono tanti altri.
Di uno ho parlato un po‘ di tempo fa.
Un altro, invece, è un brano di pochi mesi.
Si chiama Firestone e sicuramente l’avrai sentita, anche se magari ne ignori il titolo o il deejay che “la canta” (ma forse è più corretto dire che la suona).
Parte piano. 
Lenta. 
Lentissima.
Con un intro strumentale di più di trenta secondi.
La prima strofa continua, sulla rotta tracciata dall’intro.

“I’m a flame short of fire
I’m the dark in need of light
When we touch you inspire
Feel it changin’ me tonight
So take me up take me higher
There’s a world not far from here
We can dance in desire
Or we can burn in love tonight”

Pensi quasi di esserti sbagliato. Volevi un pezzo ritmato e ti ritrovi per le mani un lento. 
Eppure puoi sentirlo, in sottofondo, che il pezzo sta crescendo. 
Che c’è del fuoco, neanche troppo nascosto, sotto la cenere.
Ed è allora che arriva il ponte.
E  non so tu, ma io poche volte ho sentito un ponte come questo. 
Perché sembra una prosecuzione della prima strofa, ma in realtà ti sta già portando altrove.

“Our hearts are like
Firestones
And when they strike
We feel the love
Sparks will fly
They ignite our bones
And when they strike
We light up the world”


Nel cuore della canzone. 
Perché è più di un ponte.
E’ già parte del ritornello.
E quando pensi che il pezzo stia per aprirsi, che il suono stia completamente per esplodere, succede quello che non ti aspetti.
Il ponte viene ripetuto.

“Our hearts are like
Firestones
And when they strike
We feel the love
Sparks will fly
They ignite our bones
And when they strike
We light up the world”


Ed è una mossa geniale.
Perché prolunga l’attesa per quello che verrà.
Perché rimanda (e non bisogna essere dei fenomeni per ricordarsi di quante volte, nella vita di ognuno di noi, l’attesa, il rimandare, il desiderio di qualcosa ha amplificato il piacere che è arrivato poi). 
Perché ormai sei lì, la melodia ti ha già rapito completamente e adesso può portarti dove vuole.
A quel punto arriva l’esplosione di suoni, quelli più propriamente e strettamente dance. E quando arriva ti è davvero difficile stare fermo, probabilmente anche più di quanto lo fosse per Kevin Kline, nella famosa scena di In & Out in cui provava in tutti i modi a resistere al ritmo di I Will Survive per dimostrare la sua virilità.
Pochi cazzi, questo è un signor pezzo. 
E che lo abbia concepito un deejay (tale Kygo di cui fino a pochi mesi fa confesso che ignoravo l’esistenza) e non un eccellente e famoso songrwriter o una popstar unanimemente riconosciuta tale non ha importanza.
Non ha nessuna importanza.
Perché, dobbiamo prenderne atto, è la musica dance il Pop dei nostri giorni.




P.S. leggo che Kygo ha 24 anni (ne aveva 23, ad esser precisi, quando è stata pubblicata Firestone) e penso che alla sua età, quando lui concepiva una delle canzone meglio strutturate (e più ballate) degli ultimi anni, io trascorrevo le mie giornate in biblioteca, a via Mezzocannone, a preparare la tesi di laurea in Istituzioni di Diritto Romano: se non ho sbagliato tutto poco ci manca.

7.9.15

Quello che siamo stati.



Port Mer, Cancale, Francia, agosto 2015.
Cammino sulla sabbia, dove fino a poco fa c’era il mare. Non sembra di camminare sulla sabbia, ma nell'argilla. E’ più come sprofondare, come nelle sabbie mobili. La sensazione non è piacevole.
Ci sono già stato, qui. Da bambino. Più di trenta anni fa.
Quali erano le sensazioni che provavo quando facevo la stessa cosa, ma a quattro anni?
Non posso ricordarlo. E anche se ricordassi la risposta non cambierebbe.
Me ne rendo conto guardando un bambino che cammina, proprio come me, a pochi passi da me. 
Avrà su per giù la stessa età che avevo io quando sono stato qui la prima volta.
Ride. Corre. Agita le braccia. Si diverte.
Come può in questo momento, in questo suo divertirsi scomposto, in questo suo vivere senza condizionamenti, perdersi dietro pensieri stupidi come la sensazione provocata dall’appoggiare i piedi sulla parte di fondale lasciato scoperto dal gioco delle maree? 
Sono domande inutili. Pensieri inutili.
Domande.Pensieri.
Che non hanno alcun senso, almeno a quell’età.
Domande.
Pensieri.
L’abitudine a fare paragoni. 
A cercare le differenze, come in quel giochino della Settimana Enigmistica. 
Proprio come sto facendo adesso.
Tutte queste cose, messe insieme, danno la misura di una distanza. Tra quello che ero e quello che sono.
Tra quello che sono stato e quello che sono. 
E anche se volessi provare a ricominciare a ragionare così – e mi rendo conto, mentre lo scrivo, che il verbo “ragionare” è il più sbagliato possibile.
Anche se volessi provare a ricominciare a vivere così, non potrei.
Perché c’è tutta quella distanza di mezzo, che non si può ignorare.
Perché cresciamo, cambiamo.
Tante cose finiscono. Altre iniziano.
Molte, più semplicemente, cambiano: si trasformano.
E allora capisco che è inevitabile: quello che siamo stati non possiamo più essere.

Ma, forse, non è proprio così.
O, almeno, non esattamente così. Non solo così.
Perché forse non possiamo tornare ad essere “quello che siamo stati”, non del tutto almeno. Perché dobbiamo fare i conti con quello che siamo. Qui. Ora. Adesso.
Ma quello che siamo stati è ancora dentro di noi, da qualche parte, magari nascosto in qualche luogo oscuro ed inaccessibile, di cui abbiamo perso le coordinate.
Perché il nostro presente non può essere uguale al nostro passato, ma lo contiene: non ne può fare a meno.
Perché il passato non è affatto una terra straniera, ma il luogo a noi più familiare.
Quello in cui, volenti o nolenti, ritorniamo più spesso. 
A rifugiarci.
A nasconderci.
Molte volte a perderci.
Altre a ritrovarci.