29.9.15

Uno spot, un colpo (al cuore).



Si sgretola una videocassetta.


Si sbriciola un walkman.


L’immagine è potente. Evoca il Nolan di Inception, con le sue città sogno/incubo che si smontano, si rimontano, si capovolgono e, appunto, si disgregano.
Ed altrettanto efficace è il messaggio che si intende far passare: gli oggetti a cui ci leghiamo, da cui spesso finiamo per dipendere, anche se capaci di segnare un’epoca, sono destinati a sparire.
Tutti.
Per lasciare spazio a qualcosa di più pratico, funzionale, efficiente. 
Moderno.
In fondo, non c’è immagine migliore per dimostrare quanto il trascorrere del tempo possa essere impietoso nei confronti della tecnologia, catapultando nell’oblio oggetti che fino a un attimo prima ci apparivano perfetti. E destinati all’eternità. 
E, con essi, le epoche caratterizzate da quegli oggetti.
Solo che, in questo meccanismo pubblicitario apparentemente perfetto, c’è un problema.
Un’imperfezione.
Qualcosa che provoca un sussulto, dentro di noi.
Perché con quel walkman che si disgrega davanti ai nostri occhi, ci siamo nati: attaccato alla cinta, con dentro musicassette riempite a furia di premere il tasto play e rec contemporaneamente, mentre incrociavamo le dita nella speranza che il deejay di turno non rovinasse la canzone intervenendo con il suo vocione prima della sua fine.
Perché siamo cresciuti col videoregistratore, programmato per registrare gli horror a notte fonda. Piccoli montatori in erba allenati ad individuare l’ultimo spot di uno stacco pubblicitario prima di poter riprendere la registrazione. Ed avere così una riproduzione senza pubblicità, senza tagli, più vicina possibile a quella originale.
C’era anche chi, come me, addirittura comprava i contenitori per le VHS, quelli neri, per farci la copertina del film, usando foto e ritagli di giornale, informazioni su cast e durata prese da TV Sorrisi e Canzoni e i cartoncini del paginone centrale di CIAK per la copertina.
Eh, sì. Stavolta i maghi della pubblicità sono stati così bravi da averla fatta grossa.
Perché quegli oggetti che hanno deciso di mettere in primo piano, mentre si sgretolano sotto i nostri occhi, non sono oggetti, ma molto di più.
Sono pezzi di vita.
E se il messaggio che volevano trasmetterci era “guardate avanti, sostituite quello che avete con qualcosa di nuovo”, allora hanno sbagliato di brutto. 
Perché il risultato raggiunto è esattamente opposto.
Perché voltarci indietro è un gesto molto più naturale del guardare avanti.
Perché nessun oggetto potrà sostituire nel nostro cuore quelli con cui siamo nati.

Quelli con cui siamo cresciuti.

8.9.15

Dance is the new Pop.



Per anni mi sono chiesto dove fosse finita la musica pop.
Quella fatta di pochi accordi, semplici ed efficaci. Dalla struttura classica: strofa - ritornello, strofa - ritornello; con al massimo un ponte di mezzo.
Con quel mix difficile da raggiungere di ritmo e melodia.
E, soprattutto, con quella capacità di acchiappare l’orecchio dell’ascoltatore e di non mollarlo più  fino a costringerlo a canticchiare, come un virus. 
Che a dirlo sembra una cosa facile ma trovane canzoni così, fatte come si deve, magari capaci anche di resistere al passaggio del tempo.
Pensa alla musica degli anni '80: all'epoca tanto vituperata, per l’uso di tastiere e sintetizzatori, veri e propri segni distintivi di quegli anni e di quella musica. 
A-Ha. Spandau Ballet. Duran Duran. Ma anche quelli meno famosi di cui, anche se in questo momento sei convinto del contrario, conosci almeno una canzone a memoria: Level 42, Human League, Talk Talk e tanti altri.
Eppure quei pezzi sono ancora lì, impresse nelle nostre orecchie. E nei nostri cuori. Con le radio che non smettono mai di trasmetterli.
Tastiere e sintetizzatori. 
Ritmo e melodia. 
E dentro un’anima melodica, spesso danzante.
Canzoni che, ora lo possiamo dire, ascoltiamo da più di trent’anni anche se nessuno, probabilmente, avrebbe immaginato che un giorno sarebbero diventate dei piccoli classici.
Sì, ma adesso? 
Dove sono le canzoni così, quelle popolari nel senso appena descritto? 
Quelle che ascoltiamo per una stagione, che ci conquistano facilmente, e a cui, magari, guardiamo con sufficienza, convinti, proprio come negli anni ’80, che di esse non rimarrà alcuna traccia? 
Per anni le ho cercate sotto l’etichetta “POP”.
Ma le stavo cercando nel posto sbagliato.
Perché è ai moderni deejay, quelli che spesso diventano molto più famosi dei cantanti indicati sotto la sigla Feat. a cui affidano le tracce vocali, che dovevo guardare.
Sono loro che dovevo ascoltare.
Di esempi ce ne sono tanti.
Prendete un pezzo come Get Lucky dei Daft Punk. Tra trent’anni lo passeranno ancora alla radio? Lo suoneranno ancora alle feste? Io sono convinto di sì. Perché è fatto di quella semplicità che solo le grandi canzoni Pop hanno. 
Perché ha un piede nel passato (l’apporto di Nile Rodgers degli Chic), un altro nel presente (la voce del Re Mida dei “featuring” Pharrell), e lo sguardo dritto nel futuro (il suono (l’equilibrio nel suono tra passato e moderno che solo i Daft Punk potevano dargli).
Certo, forse è un caso eclatante. Non fa testo.
Ma ce ne sono tanti altri.
Di uno ho parlato un po‘ di tempo fa.
Un altro, invece, è un brano di pochi mesi.
Si chiama Firestone e sicuramente l’avrai sentita, anche se magari ne ignori il titolo o il deejay che “la canta” (ma forse è più corretto dire che la suona).
Parte piano. 
Lenta. 
Lentissima.
Con un intro strumentale di più di trenta secondi.
La prima strofa continua, sulla rotta tracciata dall’intro.

“I’m a flame short of fire
I’m the dark in need of light
When we touch you inspire
Feel it changin’ me tonight
So take me up take me higher
There’s a world not far from here
We can dance in desire
Or we can burn in love tonight”

Pensi quasi di esserti sbagliato. Volevi un pezzo ritmato e ti ritrovi per le mani un lento. 
Eppure puoi sentirlo, in sottofondo, che il pezzo sta crescendo. 
Che c’è del fuoco, neanche troppo nascosto, sotto la cenere.
Ed è allora che arriva il ponte.
E  non so tu, ma io poche volte ho sentito un ponte come questo. 
Perché sembra una prosecuzione della prima strofa, ma in realtà ti sta già portando altrove.

“Our hearts are like
Firestones
And when they strike
We feel the love
Sparks will fly
They ignite our bones
And when they strike
We light up the world”


Nel cuore della canzone. 
Perché è più di un ponte.
E’ già parte del ritornello.
E quando pensi che il pezzo stia per aprirsi, che il suono stia completamente per esplodere, succede quello che non ti aspetti.
Il ponte viene ripetuto.

“Our hearts are like
Firestones
And when they strike
We feel the love
Sparks will fly
They ignite our bones
And when they strike
We light up the world”


Ed è una mossa geniale.
Perché prolunga l’attesa per quello che verrà.
Perché rimanda (e non bisogna essere dei fenomeni per ricordarsi di quante volte, nella vita di ognuno di noi, l’attesa, il rimandare, il desiderio di qualcosa ha amplificato il piacere che è arrivato poi). 
Perché ormai sei lì, la melodia ti ha già rapito completamente e adesso può portarti dove vuole.
A quel punto arriva l’esplosione di suoni, quelli più propriamente e strettamente dance. E quando arriva ti è davvero difficile stare fermo, probabilmente anche più di quanto lo fosse per Kevin Kline, nella famosa scena di In & Out in cui provava in tutti i modi a resistere al ritmo di I Will Survive per dimostrare la sua virilità.
Pochi cazzi, questo è un signor pezzo. 
E che lo abbia concepito un deejay (tale Kygo di cui fino a pochi mesi fa confesso che ignoravo l’esistenza) e non un eccellente e famoso songrwriter o una popstar unanimemente riconosciuta tale non ha importanza.
Non ha nessuna importanza.
Perché, dobbiamo prenderne atto, è la musica dance il Pop dei nostri giorni.




P.S. leggo che Kygo ha 24 anni (ne aveva 23, ad esser precisi, quando è stata pubblicata Firestone) e penso che alla sua età, quando lui concepiva una delle canzone meglio strutturate (e più ballate) degli ultimi anni, io trascorrevo le mie giornate in biblioteca, a via Mezzocannone, a preparare la tesi di laurea in Istituzioni di Diritto Romano: se non ho sbagliato tutto poco ci manca.

7.9.15

Quello che siamo stati.



Port Mer, Cancale, Francia, agosto 2015.
Cammino sulla sabbia, dove fino a poco fa c’era il mare. Non sembra di camminare sulla sabbia, ma nell'argilla. E’ più come sprofondare, come nelle sabbie mobili. La sensazione non è piacevole.
Ci sono già stato, qui. Da bambino. Più di trenta anni fa.
Quali erano le sensazioni che provavo quando facevo la stessa cosa, ma a quattro anni?
Non posso ricordarlo. E anche se ricordassi la risposta non cambierebbe.
Me ne rendo conto guardando un bambino che cammina, proprio come me, a pochi passi da me. 
Avrà su per giù la stessa età che avevo io quando sono stato qui la prima volta.
Ride. Corre. Agita le braccia. Si diverte.
Come può in questo momento, in questo suo divertirsi scomposto, in questo suo vivere senza condizionamenti, perdersi dietro pensieri stupidi come la sensazione provocata dall’appoggiare i piedi sulla parte di fondale lasciato scoperto dal gioco delle maree? 
Sono domande inutili. Pensieri inutili.
Domande.Pensieri.
Che non hanno alcun senso, almeno a quell’età.
Domande.
Pensieri.
L’abitudine a fare paragoni. 
A cercare le differenze, come in quel giochino della Settimana Enigmistica. 
Proprio come sto facendo adesso.
Tutte queste cose, messe insieme, danno la misura di una distanza. Tra quello che ero e quello che sono.
Tra quello che sono stato e quello che sono. 
E anche se volessi provare a ricominciare a ragionare così – e mi rendo conto, mentre lo scrivo, che il verbo “ragionare” è il più sbagliato possibile.
Anche se volessi provare a ricominciare a vivere così, non potrei.
Perché c’è tutta quella distanza di mezzo, che non si può ignorare.
Perché cresciamo, cambiamo.
Tante cose finiscono. Altre iniziano.
Molte, più semplicemente, cambiano: si trasformano.
E allora capisco che è inevitabile: quello che siamo stati non possiamo più essere.

Ma, forse, non è proprio così.
O, almeno, non esattamente così. Non solo così.
Perché forse non possiamo tornare ad essere “quello che siamo stati”, non del tutto almeno. Perché dobbiamo fare i conti con quello che siamo. Qui. Ora. Adesso.
Ma quello che siamo stati è ancora dentro di noi, da qualche parte, magari nascosto in qualche luogo oscuro ed inaccessibile, di cui abbiamo perso le coordinate.
Perché il nostro presente non può essere uguale al nostro passato, ma lo contiene: non ne può fare a meno.
Perché il passato non è affatto una terra straniera, ma il luogo a noi più familiare.
Quello in cui, volenti o nolenti, ritorniamo più spesso. 
A rifugiarci.
A nasconderci.
Molte volte a perderci.
Altre a ritrovarci.


27.6.15

The Power of Love


Sembra un giorno orribile. 
Uno come tanti, ormai. Forse anche di più. 
A scandire le ore non la lancetta di un orologio ma le stragi.
In posti diversi, continenti diversi, situazioni diverse. 
Con modalità diverse.
Un unico comun denominatore: la violenza inaudita, la barbarie, il senso di precarietà e di paura che cresce e si insinua. Dappertutto. 
Anche mentre siamo comodamente seduti, davanti alla tv, a vedere i conduttori dei telegiornali che arrancano nella difficoltà di seguire in contemporanea tutte queste stragi.
Di riuscire a raccontare qualcosa di così difficile da descrivere quando diventa reale, come la violenza incontrollata, il male assoluto, la paura.

Sembra proprio un giorno orribile. Più degli altri, più di tanti altri.
Di quelli capaci di prendere quel poco che resta della tua fiducia nell'umanità e gettarla via, come un fazzoletto sporco.

Poi accade qualcosa. 
Un'altra notizia irrompe. 
Ma non è come le altre.
È buona. 
Un gruppo di uomini, armati solo di una penna e di un foglio di carta vecchio e un po' usurato che si chiama Costituzione, ha deciso che negli Stati Uniti d'America, in TUTTI gli Stati Uniti d'America, uomini e donne dello stesso sesso possono sposarsi. 
Ha deciso che le altre persone, anche essi stessi, in fondo, non sono nessuno per poter negare loro questo diritto.
Lo ha fatto con delle parole che, forse, sanno poco di diritto, ma profumano di buon senso, trasudano di vita. Perché, in fondo, è così che dovrebbe essere il diritto: qualcosa di vicino alla vita.
Le parole sono queste: "Nessuna unione è più profonda del matrimonio, dato che contiene gli ideali più alti di amore, fedeltà, devozione, sacrificio e famiglia. Unendosi in matrimonio, due persone diventano qualcosa di più grande rispetto a cos’erano prima, separatamente. Come hanno dimostrato alcuni dei querelanti in questo caso, il matrimonio implica un amore che può durare anche oltre la morte. Affermare che questi uomini e queste donne non rendono onore all’ideale di matrimonio sarebbe irrispettoso. Lo rispettano a tal punto che lo desiderano per sentirsi pienamente realizzati. La loro speranza è quella di non essere condannati a trascorrere la vita in solitudine, esclusi da una delle più antiche istituzioni umane. Chiedono di essere trattati davanti alla legge con la stessa dignità delle altre persone. La Costituzione dà loro questo diritto."
È una roba capace di sciogliere il più freddo dei cuori, di trasmettere un brivido a chiunque, anche a chi è impegnato nello sport più diffuso di questi tempi: l'odio contro tutto e tutti.

Ma è anche qualcosa di più. 
In un giorno terribile, per l'umanità, questa decisione, queste parole ci ricordano che, malgrado tutto, nonostante tutto, questo è ancora un mondo per il quale vale la pena vivere e lottare.
E che la forza più grande, più difficile da gestire, da contenere, da limitare, resta soltanto una: quella dell'amore.

8.3.15

Manca qualcosa.


Di fronte al mare la felicità è un’idea semplice.
Jean-Claude Izzo


Elena non portava sulle mani i segni dell'amore.
Non c'erano anelli, fedi, fedine. Nulla che potesse manifestare all'esterno la presenza di un amore nella sua vita. Ma non era solo una questione di gusto, di apparenza. L'assenza di quei tipici segni rivelava la verità: la vita di Elena era priva di amore. Lo era da molto tempo, ormai. Troppo. Quanto tempo era passato dall’ultima volta che aveva provato qualcosa che si potesse anche solo lontanamente definire amore? Quattro anni? Cinque? Ormai il ricordo di quell’ultima storia era talmente lontano da affacciarsi nella memoria confuso e frantumato, come un film del quale si ricorda nitidamente solo qualche scena, qualche faccia, senza riuscire a ricostruirne né la trama, né il titolo. Ma l’assenza di amore nella vita di Elena non si limitava ai rapporti con l’altro sesso: era un’assenza più ampia, totale. C’era, anzi non c’era, il rapporto con la madre, finito da un giorno all’altro per motivi futili ed incomprensibili come quelli alla base di una guerra. E quello con Luigi e Mario, i due fratelli, ai quali continuava a legarla nient’altro che il sangue. Perché, come andava ripetendo sua nonna Francesca: - I figli sono come i meloni. Alcuni escono bene. Altri male. – Ed evidentemente con Luigi e Mario era andata così: erano usciti male.


Elena prese posto sull’autobus che ogni mattina la portava dal Vomero, il quartiere in cui viveva, al Centro Direzionale, dove lavorava come segretaria in uno studio legale. Era il solito posto, il suo preferito. Quello con le due fila di sediolini che si fronteggiano. Quando poteva lo sceglieva sempre perché raddoppiava le possibilità d’incontrare qualcuno che conoscesse. Oppure di fare la conoscenza di un perfetto sconosciuto. O, semplicemente, d’incrociare uno sguardo interessante, in grado di portarla, anche solo per la durata di quel tragitto, in un luogo lontano. In un luogo diverso. In un luogo dove le cene non fossero fatte di monoporzioni.
E di silenzio.
Ci sperava sul serio che succedesse, anche se l’esperienza le aveva insegnato che queste cose capitano solo nei film, specie in quelle commedie romantiche americane che adorava, fiabe fatte di attori in carne ed ossa. Ma non nella vita, che, nel suo caso, era così terribilmente vuota che non sapeva neanche da che parte iniziare, per provare a riempirla.


Elena attivò la modalità random dell’I-Pod. Il suo, inseparabile, I-Pod verde fluo. Per nessun motivo al mondo si sarebbe separata da quell’oggetto (ma poteva davvero liquidarlo come un semplice oggetto?). L’unico capace di tenerle compagnia in mezzo a tutto il silenzio che la circondava. Era diventato parte di lei al punto da avervi fatto incidere sopra il suo nome.
Elena.
Perché se c’era una cosa che le aveva salvato la vita più di una volta, beh, quella era la musica. La musica la distraeva. La portava in mondi lontani, allontanandola dai pensieri negativi. Come quello di essersi assuefatta alla mancanza di amore. Al torpore sentimentale nel quale era finita. Al punto che la paura più grande, anche di quella di restare sola, era che, se soltanto le fosse capitato di incrociare lungo la strada qualcosa di lontanamente simile all’amore, non sarebbe riuscita a riconoscerlo.
E sarebbe andata avanti, come nulla fosse.


Nelle cuffie irruppe una musica techno-house, svegliandola dai pensieri nei quali era immersa. – Rischi della modalità random. – Pensò tra sé e sé, mentre col pollice destro schiacciava il pulsante forward dell’I-Pod in cerca di un brano più leggero. Più adatto alla condizione sonnecchiante delle sette e trenta del mattino. “Drive” dei The Cars. Uno dei suoi brani preferiti. - Mi è andata bene.  – Pensò. – Difficilmente la selezione casuale dei brani.. – Non fece in tempo a completare il pensiero che si interruppe. L’uomo seduto di fronte a lei le stava parlando. Era anziano, l’aria trasandata, il collo avvolto da due sciarpe di colore diverso che prendevano direzioni opposte.
- Vedete? Questa è la conferma. Non avete nemmeno sentito cosa vi ho detto. – Le disse l’uomo anziano, agitando le mani nell’aria come se stesse allontanando dei moscerini. Quasi le sembrò che la stesse rimproverando. Anzi, senza IL “quasi”. Il tono era proprio quello di un rimprovero.
- Mi scusi, ma io… - Elena si tolse le cuffie e provò a giustificarsi. Anche se proprio non riusciva a capire perché avrebbe dovuto giustificarsi con uno sconosciuto, e per giunta con uno sconosciuto che gesticolava ed aveva un tono scorbutico.
- Lasciate stare. Quello che vi dovevo dire ve l’ho detto. Alla prossima fermata devo scendere. Meglio che inizio ad alzarmi, se non voglio restare bloccato a sentire questa schifezza di musica che state sentendo. – Tagliò corto l’uomo, facendo fare un ennesimo giro intorno al collo alle due sciarpe.
- Senta, io… - Disse Elena, provando a trasformare in un dialogo quello che ormai appariva anche agli altri passeggeri come un interminabile monologo.
- E poi, inutile parlare con voi giovani. – Concluse lapidario l’uomo, alzandosi dal sediolino e dirigendosi verso la porta centrale dell’autobus. – E non andate in giro a suicidarvi ed a lamentarvi della solitudine! – Riprese a sorpresa l’uomo, tornando sui propri passi come il tenente Colombo, quando, dopo aver interrogato il principale indiziato, si ricordava tutt’a un tratto di avere un’ultima cosa da chiedergli. – La verità è che fate di tutto per essere soli, voi giovani. T-u-t-t-o. – Scandì lentamente, voltandosi e scendendo dall’autobus mentre imprecava sottovoce il malcapitato dio di turno quel giorno.
Elena rimase immobile, incerta sul se sentirsi più turbata per la ramanzina subita o per il fatto che quel signore anziano sembrava aver gettato uno sguardo dentro la sua testa e, fra tutti i pensieri, aver pescato con implacabile precisione quello che la assillava di più.


Bruce Springsteen cantava di come gli occhi tristi non mentono mai, quando Elena si accorse che il ragazzo che aveva preso il posto del vecchio di fronte a lei la stava scrutando da cima a fondo, dagli stivali beige al cappello di lana arancione col pon-pon viola, che esteticamente non era il massimo, ma aveva l’indubbio merito di tenerla al riparo dai fastidiosi attacchi di sinusite, particolarmente frequenti durante l’inverno.
- Elena! Elena! Sei proprio tu! – Esclamò il ragazzo, prima che Elena potesse scagliargli contro una delle occhiatacce, efficaci come uno sfollagente, che usava per tenere alla larga attaccabottoni indesiderati e molesti.
- Io… S-sì. Mi chiamo Elena, ma… - Niente occhiatacce, pensò. Mi ha chiamato per nome. Evidentemente mi conosce. - …ci conosciamo? – Gli chiese.
- Direi proprio di sì. – Fece il ragazzo, sfoderando un sorriso che avrebbe detto sincero. E con un tono di voce dal quale traspariva felicità. – Però ti vedo sorpresa. Proprio non ti ricordi di me? - Le chiese, ed il sorriso gli scappò dal volto, andandosi a nascondere chissà dove.  
- Scusa, ma.. Mi spiace. Temo di non... – Fece Elena, ma, pensando che l’espressione sorpresa che doveva esserle apparsa sul volto insieme alla risposta esitante fossero la causa dell’improvvisa sparizione del sorriso dal volto del ragazzo, provò a rimediare. – Aspetta. Fammi indovinare. Lavoro!
- Acqua.
- Amici comuni!
- Acqua.
- Aspettaspetta! Hai un viso conosciuto. Ho capito: scuola! Eravamo alla stessa scuola!    
- Fuocherello.
- Ho capito! Eravamo in classe alle medie. Marcello! Ecco chi sei!
- Sbagliato! Ma ci sei andata vicina…
- Non sei Marcello? - Aliotta. Biondi. De Felice. Iniziò a ripercorrere mentalmente l’elenco dei compagni di classe delle medie che, per uno di quei perversi ed insondabili meccanismi della memoria, ricordava perfettamente. – Di Maio. Ecco chi sei: Giovanni Di Maio!
- Bravissima! – Il sorriso tornò definitivamente sul volto del ragazzo dopo essere riapparso solo ad intermittenze quasi impercettibili.
- Però… Lo devi ammettere: era difficile riconoscerti. Sei cambiato molto. Ti ricordavo con i capelli a spazzola, non lunghi e ricci.
- Beh, è passato tanto tempo. Tu però sei sempre carina. Anzi, lo sei ancora di più, se possibile.
- ..grazie. Sei gentile. – Rispose Elena, superando a fatica l’imbarazzo per il complimento ricevuto. E spiazzata dal fatto di non aver avvertito la sensazione di fastidio con la quale era abituata ad accogliere i complimenti. – Molto. – Prese coraggio. – Sei molto gentile. – E si decise a ricambiare il sorriso.
- Di niente. È il minimo che posso dir.. – Rispose Giovanni, interrompendosi alla vista di una donna alta dai capelli biondi che si stava dirigendo verso il posto libero accanto a lui. – Mi spiace, ma… Devo scendere. Spero di rivederti.
- Ah! – Sospirò Elena, spiazzata dalla brusca interruzione ed angosciata per la fretta di dover fare immediatamente qualcosa per non sprecare quell’occasione che il Destino le aveva riservato. – Aspetta. Non scappare. Potremmo rivederci, se ti va, qualche volta.
- Ehm.. – Mormorò Giovanni, guardando verso l’alto in cerca di una soluzione. – Facciamo così: dammi il tuo cellulare e ti faccio uno squillo. – Disse, alzandosi e tenendo le spalle alla donna che si stava avvicinando sempre di più.
- Ok. 34815162342.
- Bene. Segnato. Ora scappo. – Disse, voltandosi. E si avviò all’uscita dell’autobus con passo spedito, tenendo lo sguardo basso per evitare di incrociare quello della donna.
- Ciao! A presto! – Rispose Elena, accennando inutilmente ad un saluto con la mano sinistra mentre con l’altra si rimetteva le cuffie.
- Solo per curiosità… - Intervenne la donna dai capelli biondi, prima che Elena potesse schiacciare il tasto play dell’I-Pod. – Come ha attaccato bottone?
- Scusi, ma io… Non capisco – Rispose Elena, domandandosi se per caso non fosse finita in qualche stupida candid camera.
- Aspetta. Te lo dico io. Ti ha detto di essere un tuo ex compagno di classe. Vero? – Chiese la donna, sporgendosi in avanti e guardando Elena dritta negli occhi.
- Si, proprio così, ma… Lo è. Stavamo nella stessa classe alle medie. E comunque scusi, ma… Proprio non capisco. Ci conosciamo? - Chiese Elena, infastidita dalla seconda intromissione spiacevole della giornata e dal tono ironico della donna.
- No, non ci conosciamo. Chiedevo solo così, tanto per sapere se il repertorio di quel tizio si è arricchito un po’…
- Ma lui… È davvero un ex compagno di classe. Ricordava anche il mio nome.
- Certo, come no. Sai, non ci vuole molto a conoscere il tuo nome. Ti chiami Elena, vero?
- S-si, ma… Come ha fatto?
- È inciso sul tuo lettore mp3. Lo avrà letto anche lui. Mi spiace deluderti, ma… È davvero bravo ad abbordare. Ci prova con tutte le ragazze che salgono su questo autobus. Oddio, non proprio tutte. Quasi tutte. Se non sono carine no.
- … … … - Elena non  riuscì a trovare le parole adatte. Si sentiva una stupida per esserci cascata così facilmente. E si sentiva svuotata. Ancora di più, se possibile. Come se l’inganno del finto Giovanni le avesse tolto l’ultimo briciolo di speranza che, da qualche parte, le era rimasto.
- Mi spiace. Capisco come ti senti adesso. Presa in giro. È successo anche a me. – Provò ad incoraggiarla la donna, rendendosi conto di aver incrinato qualcosa nella ragazza.
- Non si preoccupi. Sto bene. Non mi sento presa in giro. Non sento proprio nulla. – Elena chiuse il discorso. E prese a guardare la strada scorrere dal finestrino mentre con il pollice cercava di nuovo il tasto play.

Il Boss riprese a cantare da dove si era interrotto.
Elena guardò passare la fermata alla quale doveva scendere.
E quella successiva.
E quella successiva ancora.
Non sarebbe andata a lavorare, quel giorno.
Avrebbe inventato una scusa.
Dopotutto, non mancava mai.
Le era passata la voglia di lavorare, per quel giorno.
O, forse, le era passata la voglia di tutto.


Elena scese alla fermata dove aveva preso l’autobus.
Si diresse con passo veloce verso il portone del palazzo nel quale abitava, frugando nella borsa, in cerca delle chiavi. Arrivò e fece per aprirlo, quando il suo sguardo fu catturato da un piccolo scorcio, proprio sotto casa. Lì, dove la strada finiva per lasciare spazio ad un affaccio dal quale poteva scorgersi, così lontano eppure così vicino, il mare.


Elena non portava sulle mani i segni dell'amore.
Non c'erano anelli, fedi, fedine. Nulla che potesse manifestare all'esterno la presenza di un amore nella sua vita. Ma non era solo una questione di gusto, di apparenza. L'assenza di quei tipici segni rivelava la verità: la vita di Elena era priva di amore. Quando le capitava di parlarne si sforzava di tenere nascosto questa mancanza. Questo senso di vuoto. – Bene. – Rispondeva ad amici o presunti tali che le chiedevano come se la passasse. Si sforzava. Ma non ci riusciva del tutto. – Anche se… - Così aggiungeva, facendo spuntare un punto di domanda sul volto dei suoi interlocutori. - ..manca qualcosa.
Si avvicinò al parapetto, le braccia tese in cerca di un appoggio. Gettò lo sguardo verso il basso. Paura e voglia di cadere al tempo stesso. Fece qualche passo indietro ed andò a sedersi sulla panchina in ferro e legno, esattamente di fronte allo scorcio.
Beh, quel giorno non le sarebbe mancato proprio un bel niente. – Si disse. - Quel giorno sarebbe bastata a se stessa.
E prese ad osservare la luce riflessa nel mare.
Nel mare.






2.1.15

Ritornare Umani


Un concerto.
Tutti siamo intenti a riprenderlo con gli smartphone mentre la cantante, sul palco, pochi metri davanti a noi, sputa fuori l'anima.
Anche se non ce ne rendiamo conto abbiamo fatto una scelta. Chiara, precisa: costruirci un piccolo souvenir della serata, fatto di immagini sghembe, tremolanti ed oscure, di suoni distorti e coperti da voci stonate, piuttosto che goderci lo spettacolo, vivere il momento, quel momento, senza il filtro di uno schermo. 
Pensando solo a noi ed a chi ci sta accanto in quel momento, e non a quanti metteranno un "Mi piace" sotto il nostro video dopo che lo avremo condiviso.

Un negozio di hot-dog.
Dietro il bancone un ragazzo che, in velocità, senza fermarsi un attimo, arrostisce würstel, riscalda panini, frigge patatine, raccoglie i soldi e da il resto. Tutto lui, da solo. Nessun altro ad aiutarlo. 
Qualcuno, nella fila, incomincia a lamentarsi. Sta aspettando da troppo tempo. 
Non lo sfiora neanche, almeno per un attimo, l'idea di mettersi nei panni di quel ragazzo, dall'altro lato del bancone. Che lavora ininterrottamente da ore e ore e dovrà farlo ancora per chissà quanto, nel caldo provocato da piastre roventi, friggitrici e marchingegni per scaldare i würstel. 
Ma, a pensarci bene, non è colpa sua.
È che, senza nemmeno rendercene conto, abbiamo smesso di provare empatia.
Persi come siamo, nei ritmi frenetici e insensati delle nostre vite, abbiamo dimenticato quanto sia importante l'empatia.
Quanto sia necessaria, per poterci dire umani. 
Per poterci considerare veramente umani. 
Nell'unico senso possibile.

Per strada.
Una ragazza, camminando a passo veloce tra la folla, ne butta per aria un'altra. Anziché chiederle scusa va dritta per la sua strada e, al mormorio dell'altra, risponde biascicando qualche insulto. 
Quand'è che siamo diventati così violenti? Così aggressivi? Così intolleranti? Pronti a scagliarci contro l'altro anche quando non ha nessuna colpa? Anche quando siamo i primi ad aver sbagliato? 
Ché la parola scusa è sempre la più difficile da pronunciare, come diceva una nota canzone di qualche tempo fa.
E l'attacco resta pur sempre la miglior difesa.
Fa niente se a furia di abituarci ad aggredire siamo diventati sempre più simili agli animali.
Tanto, abbiamo smesso da un pezzo di comportarci da esseri umani. 
Di essere umani. 

Al ristorante.
Ci portano una pizza. È calda, profumata. 
Dovremmo agguantarla con le mani e strapparla a morsi.
Invece tiriamo fuori il nostro smartphone, quando non lo abbiamo già appoggiato sul tavolo. 
Incominciamo a scattare foto. E, per farlo nel migliore dei modi possibili, finiamo per farla raffreddare. Per farle perdere il gusto. Per far svanire quel buon odore. 
Di tanto in tanto guardiamo la persona seduta di fronte a noi, di sfuggita. 
Raramente ne incrociamo lo sguardo, quasi per caso, distratti come siamo a far scorrere le dita tra un'applicazione e l'altra. Mentre postiamo una foto, sbirciamo tra gli squarci di vita altrui, rispondiamo ad un messaggio su WhatsApp. O diamo un'occhiata alle previsioni del tempo. Dio, quand'è che sono diventate così importanti le previsioni del tempo?
Compiamo questi gesti in maniera automatica, meccanica, sempre più naturale.  
Eppure è anche così che, un click dopo un altro, abbiamo smesso di essere umani.
È proprio così che, un click dopo un altro, abbiamo smesso di sentirci umani.
Nell'unico senso possibile.

E allora chiudilo quel cellulare, che non ti serve a niente. 
La persona più importante della tua vita, con ogni probabilità, in questo momento, è lì, accanto a te.  
Accarezzala. 
Parlale. 
Scherzaci.
Sorridile. 
Ascoltala. 
Sforzati di comprenderla. 
In fondo basta poco, per ritornare umani.